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martedì 29 novembre 2011

Ricordando George Harrison

◆ Marco Iacona

Dieci anni dopo il mito resiste. Talento precocissimo, fu tra
i primi ad abbinare le melodie occidentali agli strumenti
orientali, a mescolare il pop alla musica d’avanguardia

George Harrison
Una vita divisa in due parti.  Una vita
divisa in due, con un prima e un dopo.
All’inizio ci sono Paul, John, Ringo e lui, George,
poi ognuno va dove vuole andare. Perché
ognuno si trova già dove vuole essere: lontano
dagli altri e solo con se stesso.
Si sa da almeno quarant’anni, dal 1970, dopo
la celebre intervista di Jann S. Wenner, per
Rolling Stone a John Lennon che i Beatles sono
scomparsi nell’estate del 1967, con la morte del
manager Brian Epstein. Domanda: «Quando
hai capito per la prima volta che i Beatles erano
finiti?». Risposta: «Non me lo ricordo … I
Beatles si sono sciolti dopo la morte di Brian;
realizzammo il doppio album, il tramonto. È
come se ogni singola traccia di quel disco fosse
solo mia o solo di George. Sembrava, l’ho detto
tante volte, come se fossimo io e un gruppo di
supporto, Paul e un gruppo di supporto e non
mi dispiaceva affatto. Fu così». Ma anche George
ha la sua ricetta: i Beatles sono morti per
colpa delle donne, Yoko Ono e Linda Eastman.
È la tesi più accreditata. Sia quel che sia, le tappe
verso la frantumazione del più grande gruppo
pop dell’era moderna sono ben altre. L’annuncio
ufficiale dello scioglimento, il 10 aprile
del 1970, dato da Paul McCartney, le carriere
da solisti dei quattro scarafaggi, che tuttavia
incrociano le chitarre a più riprese. Fino all’8
dicembre del 1980, fino alla morte violenta di
John. E ancora oltre, fino alla scomparsa di George
Harrison, il 29 novembre 2001.
Dieci anni. Tace da dieci anni il Beatle più
spiritoso e cordiale. Ma anche meno sfacciato.
Dei quattro, quello passato alla storia come lo
spiritualista del gruppo. Paul (quello vero o
quello falso, dopo la presunta morte del 1966), è il genio assoluto, che modula simpatia e antipatia
a piacimento: sa benissimo di essere il numero
uno. Quando nei Sessanta i critici coraggiosi
paragonano la musica dei Beatles a quella
di Mozart o di Beethoven è a Paul che pensano,
all’autore di Yesterday e di Hey Jude. È lui
che sorregge le sorti del gruppo. John è il maledetto,
per eccellenza, la sua biografia parla
chiaro: è un predestinato e muore come morirebbe,
nel XX secolo, uno che gode di fama planetaria,
amatissimo ma anche odiato per le
proprie vicende personali. Ringo è il meno dotato
(e il meno bello) del gruppo, forse l’immagine
di quello nato con la camicia che si è trovato  ad essere semplice coprotagonista di un
gruppo musicale, gli sta un po’ stretta. Si dà da
fare anche dopo il 1970, la faccia tosta non gli
manca, ma non riesce mai a sfondare.
E poi c’è George, destinato a rimanere per
qualche tempo un’incognita. Nonostante i successi.
Letteralmente schiacciato fra John e
Paul, che gli bocciano parecchie canzoni, anche
belle, all’inizio dell’avventura dei Beatles
anche il suo ruolo è secondario. Col tempo però,
tutti si accorgono del suo talento. Insieme
ad alcuni brani meno popolari, eseguiti dal
gruppo, scrive canzoni conosciutissime come
Here comes the sun, While my guitar gently wips
e Something. La sua abilità non è roba da
poco, uno dei primi nomi da pronunciare se si
chiacchiera di World music o di New age è il
suo. George è un talento precocissimo e tra l’altro
è uno sperimentatore nato, fra i primi ad
abbinare le melodie occidentali agli strumenti
orientali. Ama mescolare il pop alla musica
d’avanguardia ed è appassionato di strumenti e
ritmi esotici. È il più giovane fra i quattro (25
febbraio 1943, è la data di nascita), ma già dal
1965 è il primo a cercare una propria dimensione
personale, slegata da quella dei tre compagni.
Conosce e frequenta il grande sitarista
Ravi Shankar – il sitar è uno strumento della
tradizione indiana –, dal quale apprende l’uso
di uno strumento così insolito. L’amore per la
musica non occidentale corre parallelamente a
quello per l’intero mondo orientale, per la religione,
gli stili di vita e le aspirazioni dei popoli
lontani. Per un po’ di tempo anche gli altri vogliono seguirlo.
Quando la prima parte della sua vita si conclude
(nel 1970), George ha appena compiuto
ventisette anni. È già abituato alle grandi responsabilità
e ha raggiunto una piena maturità
artistica. Debutta immediatamente con un
triplo album (All things must pass), nel quale è
contenuta la bellissima My sweet lord, una preghiera
dal sapore indù, fra gli halleluja e gli hare
krishna; nulla toglie al fascino della melodia
la lunga e complessa vicenda giudiziaria relativa
al plagio (“inconsapevole”) di He’s so fine
delle Chiffons. È sufficiente la buona riuscita
del primo ellepì post-Beatles per far capire al
mondo che ha guardato al “terzo Beatles” con
occhi di sufficienza, di che pasta sia fatto l’ex
compagno di Paul McCartney. Ma il tempo per
riflettere è sprecato. L’anno successivo c’è
l’evento che può stravolgere la carriera di un
musicista. Il concerto per il Bangladesh, organizzato
da Harrison e da Shankar, il primo
evento musicale del genere, di portata mondiale.
Alle serate di beneficenza oltre a Bob Dylan
partecipa anche Ringo Starr. I proventi vanno
in favore dei profughi della guerra tra India e
Pakistan.
Anche qui non mancano le polemiche, soprattutto
per la fretta con la quale George ha
voluto organizzare il concerto. Stavolta alla base
ci sono i problemi col fisco americano.
Ben oltre i successi, sovente non garantiti
nelle performance dal vivo, o le iniziative in
campo cinematografico, è la beneficienza a caratterizzare
la carriera di Harrison; a far da cemento
fra questa e la musica una carica spirituale
nota non solo agli appassionati del genere.
Ma la relativa estraneità dell’ex Beatle al
mondo dell’industria musicale, ai profitti e alla
commercializzazione dell’arte, nuoce e non
poco alla sua fama internazionale. Dopo i successi
dei primi anni Settanta, i fan devono attendere
la fine degli Ottanta per gustare il meglio
del loro beniamino. Giova molto alla sua
immagine anche la partecipazione al progetto
Traveling Wilburys (due dischi) sempre con
Bob Dylan, Tom Petty Jeff Lynne e Roy Orbison
che muore però già nel 1988.
George, George che inizia da rabbioso capellone
e finisce da mistico universale. Forse
non fortunatissimo nella vita privata, ma altrettanto
generoso. Quando si ammala di cancro
tutti sanno che non può fare molta strada.
Ma lui non ha paura della morte. I fan lo capiscono
già alla fine del ’99 quando subisce
anche lui un’aggressione da parte di un folle.
A salvarlo è la seconda moglie Oliva. La prima
se n’è andata col suo grande amico Eric
Clapton. Ma lui non serba alcun rancore né a
lui né a lei. Quando spiritualità non è solo una
parola di dodici lettere.

Da www.secoloditalia.it

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