Vogliamo giustizia!

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Giustizia per i morti di Bologna

Ultimissime del giorno da ADNKRONOS

giovedì 31 gennaio 2013

L'autismo verso l'infinito ed oltre!

 

Ramen Bold for Iphone

ciotolaxiphone

Capita ormai sempre più spesso di passare pranzi, cene, serate, nottate, mattinate e pomeriggiate con il cellulare costantemente in mano per chat, giochi e gingilli vari. Per quelli tra voi che credono che "socializzazione" sia solo un termine da cercare su Wikipedia (referente universale di grande affidabilità. L'ho scritta tutta io in un ozioso pomeriggio di maggio…) o la parola preferita da Mark Zuckerberg (e ho letto/scritto su Wiki che non è così…) c'è una nuova, autistica novità! Questa scodella, inventata da qualche hikikomori giapponese, è dotata di una comoda fessura dove inserire il proprio smartphone, in modo da avere le mani libere (ma la mente occupata) per poter consultare il cellulare durante il pranzo con maggior facilità. Ottimo per pasti lobotomici, colazioni distratte e cene roboromantiche. Chi chatta a tavola e googla a letto è un matto perfetto!

Marcello Celori

www.misosoupdesign.com

mercoledì 30 gennaio 2013

In attesa dei risultati elettorali del “nostro mondo”(?).

essereesempio

Credo di aver già scritto come gradisca poco intromettermi nelle vicende politiche, soprattutto in vista delle elezioni e di un ambiente (mio? nostro? Ormai distante e perduto?) che ha nessun senso del ‘pudore’ proponendosi con tre o quattro sigle alla destra della destra. Prevedo, senza scomodare il mio fantasioso antenato, che potremo utilizzare le varie percentuali di ciascuno quali prefissi telefonici. Non è, però, mia intenzione, nè qui nè altrove, sostituirmi agli uffici competenti di statistica o alle compagnie rivali delle telecomunicazioni. O, se volete, memore della canzone di Giorgio Gaber, mitico, ‘Al caffè Casablanca’ dove si beve si mangia il gelato e si parla di rivoluzione con i giornali di Lotta continua sotto o sopra i tavolini. Ovviamente senza più intrattenersi su rivolte bastoni e barricate che darebbe il legittimo, pur se auspicabile mi viene a volte la tentazione di pensare, sapore triste dell’amarcord, come intitolava Fellini un suo film e come si dice in dialetto di Romagna dove sono cresciuto.

Sabato pomeriggio sono stato al convegno, organizzato da una giovane comunità locale, su Codreanu e la Guardia di ferro in un agriturismo nei pressi di Fiuggi, di cui ho anticipato l’evento in precedente mio intervento. Fra l’altro erano presenti tre esponenti dell’Asociatia Noua Dreapta, uno dei quali rientrato in Italia dalla Spagna dove, ogni anno, si rinnova il ricordo della morte in combattimento di Ian Motza e Vasile Marin, volontari nella guerra civile, a Majadahonda, nei pressi di Madrid ai primi del 1937. Qui dal 1970 è stato eretto, con gli esclusivi fondi degli esuli, un monumento. Diversi gli interventi, tutti ad alto livello, tutti appassionati, rigorosi, tutti capaci di confermare quanto già aveva rilevato Maurice Bardéche essere, cioè, ‘la più originale e affascinante prova compiuta e più pura della grandezza morale a cui può condurre l’idea fascista’.

Hanno chiesto, i giovani organizzatori, che fossi io a concludere, magari per rispetto ai capelli bianchi più che per l’autorevolezza del sapere. E – modestamente, mai – non li ho delusi… Tutta questa premessa per riportare una affermazione del Capitano, risposta al magistrato che, malevolo e subdolo, gli chiedeva quali fossero i criteri per entrare nella Legione e accedere alle gerarchie e competenze funzionali: ‘E’ la quantità di sofferenza e di amore’. Ed ho voluto sottolineare il termine ‘amore’ perché ciò che colpisce, mi colpisce, è l’assoluta convinzione di Codreanu che non è sufficiente essere predisposti ad affrontare la ‘buona battaglia’, bisogna essere capaci di viverla, renderla azione. Attraverso i campi di lavoro, il commercio legionario, la doppia gerarchia e, va da sé, il sacrificio perché il sangue versato alla terra dei padri dà allo spirito la forza d’affermarsi…

Sappiamo quanto feroce fu la repressione operata ai danni del movimento legionario e quanta forza spirituale seppero dimostrare nella tormenta i suoi aderenti. Sappiamo anche quanto i Fascismi al potere faticarono ad intenderne il valore, diffidarono, preferirono il governo militare del generale Antonescu più che il successore di Codreanu, Horia Sima. Politica e iniziazione spirituale, la tensione mistica del radicalismo romeno apparivano collocarsi ben oltre a quanto, pur presente e significante, vi era nella religiosità del fenomeno fascista…

Sono gli anni ’70 che, nelle realtà giovanili della destra di partito e radicale, scoprono Codreanu e trasformano ‘Il Capo di Cuib’ in una lettura di formazione del militante. Davanti all’invadenza di un mondo giovanile votato alla sinistra, con i cortei di migliaia di partecipanti, con slogan e referenti di un marxismo nei suoi molteplici rivoli, nell’arroganza di uno spirito illuminista e giacobino che si arrogava, come cantava Francesco Guccini, di stare sempre dalla parte della ragione e mai del torto, con la ferocia la brutalità la sicumera d’essere in tanti, rivendicare la superiorità dell’ardua scelta ove tutto donare e donare anche se stessi. Quando Franco Anselmi bagna il proprio passamontagna con il sangue ancora caldo di Stefano Recchioni sull’asfalto, egli compie – consapevole o meno, ben poco importa – un gesto ‘legionario’. Di quei legionari che, dopo aver compiuto l’esecuzione di Calinescu, l’uomo dal ‘monocolo nero’, artefice dell’assassinio del Capitano e dei tanti camerati, si consegnano o danzano e cantano intorno al letto del traditore giustiziato in attesa d’essere arrestati e inviati nelle miniere di sale o direttamente strozzati nelle celle.

‘La quantità di sofferenza e di amore’, appunto…

Poi, poi… per molti, troppi, ‘il tradimento dei chierici’ al lavoro, inteso non come strumento ma finalizzato al guadagno, i miti consumistici macchina sportiva cellulare d’ultima generazione, abito firmato, ostriche e champagne. E la politica come carriera. Che ciò sia avvenuto anche ‘a sinistra’ perché dovrebbe scandalizzarci, lasciare l’amaro in bocca? Non pensammo – e così ci educarono i nostri maestri, ad esempio Julius Evola o Drieu la Rochelle – che americanismo e bolscevismo erano le facce d’un medesimo conio? E, proprio contro di loro, ritenemmo che il Fascismo ‘immenso e rosso’, la ‘guerra del sangue contro l’oro’ aveva combattuto una lotta mortale e noi, eredi di quell’avventura, con lui.

Oggi quei giovani di allora, molti, troppi di loro, sono fra coloro che selezionano o sono candidati alle prossime elezioni e alla ‘quantità di sofferenza e di amore’ hanno sostituito ruffianeria corruzione e denaro… mentre le ali dell’Arcangelo Michele, le sue piume sono state disperse e calpestate…

di Mario M. Merlino

lunedì 28 gennaio 2013

Aggiornamenti EURASIA ( 21/01 – 27/01 2013 )

eurasia

 

Di seguito il sommario degli aggiornamenti della Rivista "Eurasia" dell’ultima settimana (dal 21 al 27 gennaio 2013):

Indice

  • Pubblicazioni
  • Articoli e saggi

Pubblicazioni

E' attualmente disponibile in libreria l’ultimo numero (4/2012) di "Eurasia" (XXVIII), intitolato "L’islamismo contro l’Islam?".

Primo decennale di “Eurasia”

Con l’uscita del n. 1/2013, prevista per il 28 febbraio, “Eurasia” entra nel suo decimo anno di attività.

Per l’occasione, tutti coloro che entro quella data avranno sottoscritto un abbonamento sostenitore alla rivista avranno il diritto di scegliere 3 numeri arretrati e un “Quaderno di Geopolitica”. Chi sottoscriverà un abbonamento a 5 numeri, riceverà 2 arretrati in omaggio. Un abbonamento a 3 numeri darà diritto a ricevere un numero arretrato.

Articoli e saggi

Maximiliano Barreto, LE ISOLE MALVINE IN UNA PROSPETTIVA ARGENTINA

Marcelo Gullo, MALVINE: DA CRISTOFORO COLOMBO A JUAN PERÓN

Claudio Mutti, UN NUOVO NOMOS MULTIPOLARE CHE LIBERI IL MONDO DALLA PREPOTENZA GLOBALE DELLA TALASSOCRAZIA STATUNITENSE

Marco Nocera, L’INTERVENTO SUBIMPERIALISTA DELLA FRANCIA NEL MALI

...E tanti altri articoli sono disponibili sul sito!

La Redazione.

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sabato 26 gennaio 2013

Grazie Bersani

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Bisogna essere “laici”, nella vita. Ove la parola “laico” intende essere senza preconcetti, accettare i fatti per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero, non distorcere la verità per adattarla ai nostri credo.

Ed oggettivamente il buon Bersani ha reso un favore a tutti, un favore di una portata che sicuramente il futuro Presidente del Consiglio in pectore (in pectore suo, perchè i poteri forti vogliono Monti) non realizza. Non è cattiveria, è che proprio non ci arriva. Quando lo ho definito una quarta linea non sbagliavo, o sbagliavo per eccessiva benevolenza. Se fosse un politico vero, un animale politico, uno che pensa, non si sarebbe lasciato scappare, nello sconquasso del timore, nell’abisso della paura, nella nebbia dell’imbarazzo, quella frase rivelatrice: “Noi del PD con il Monte dei Paschi di Siena non centriamo nulla!” Con uno sguardo imbambolato, con il viso terreo ed una smorfia tra l’ira e lo sconforto.

Che sia una balla degna di un mercante arabo di un suk di Casablanca, lo avrebbe capito anche un vecchio eremita, lontano dal mondo.

Per farla breve, la Banca rossa è controllata dalla Fondazione, che ha 16 membri nel Comitato di Indirizzo, e che sono così nominati: 8 dal Comune (cioè PD), 5dalla Provincia (cioè PD), 1 dalla Regione (cioè PD). Più uno dall’Università (?) ed uno dall’immancabile Curia (e te pareva!). Almeno 14 su 16 rispondono al PD. Alla faccia del non centrarci nulla!

Ed in più D’Alema si è pubblicamente vantato del fatto che è stato proprio il PD ad allontanare l’ex Direttore Generale del Monte Paschi. Mettetevi d’accordo,sorbole!


E già ai tempi del PCI si vociferava di un’enorme “sofferenza” che la Banca rossa aveva nei confronti del trinariciuto partito: decine se non centinaia di miliardi di lire.

Eppure in tutto questo vi è una morale, un insegnamento.

Non è che il PD sia immacolato. Servo anche lui dei poteri forti (ricordatevi D’Alema che fornì le basi e la logistica per il criminale attacco della Nato alla Serbia), vessillifero della logica della “società senza contanti” voluta dalla Goldman Sachs e sodali annessi, l’ingenuo epigono di “Mortadella” ha di fatto svelato che il Re è nudo. Ha ammesso che tutti i democratici, nelle loro finta differenziazione, rispondono alla logica della globalizzazione annichilente. “ A casa vostra fate pure ogni genere di porcheria e di latrocinio, purché restiate nella linea, nel filone che i poteri forti hanno tracciato. Arricchitevi pure personalmente, e non importa cosa fate e come trattiate i sudditi, purché lavoriate per il nostro fine, il nostro scopo”.


Pensateci bene. Oggi gli avversari politici dei PD fanno le vergini dai candidi manti, ma questo è il classico caso cui si può applicare l’adagio popolare “il più sano ha la rogna”.


Ne abbiamo viste di tutti i colori, in queste settimane, e se riusciamo ancora a mangiare senza dar di stomaco è grazie a quella dose di cinismo e di scetticismo che tre mila anni di civiltà hanno instillato nel nostro DNA.

Bersani ha avuto il merito, nella sua nullità politica, di aver certificato che sì, i partiti sono collusi; che sì, questo andazzo è comune ma non confessabile; che sì, presi con le mani nella marmellata, bisogna negare sperando nell’imbecillità della gente; che sì, proprio questo sotto elezioni proprio non ci voleva……Per finire poi con la summa dell’antipolitica: “Anche voi! E dovete vergognarvi”. Proprio come i bambini alle elementari: “anche lui…..” quando sono sgridati dalla signora Maestra.

Mi è tornato alla mente Mussolini, quando, incolpevole, si assunse a chiare lettere la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti. Ma “quello là” aveva due palle così. Un politico, appunto.

Bersani, senza accorgersene ha fatto un favore a tutti. Ha reso chiaro la dimensione dell’intelligenza politica di chi ci governa. “Sorbole…”


Fabrizio Belloni

Venerdì 25 gennaio 2013.

 

Da: http://www.ereticamente.net/2013/01/grazie-bersani.html

giovedì 24 gennaio 2013

Incontro con il romanziere Giorgio Ballario

Ballario

VENERDI 25 GENNAIO ORE 21.00 A L'UNIVERSALE INCONTRO CON IL ROMANZIERE GIORGIO BALLARIO

Libreria - Galleria delle Arti L'Universale
via F. Caracciolo 12 Roma
All'incontro con il romanziere Giorgio Ballario
interverranno: Roberta Di Casimirro, regista Radio 1
RAI, Roberto Diso, pittore e disegnatore, Gabriele
Marconi, scrittore e direttore della rivista Area.
Leggere e diffondere l'allegato.
Grazie.
Info 3394987052

lunedì 21 gennaio 2013

Proiezione del film “L’onda” a L’UNIVERSALE

DieWelle_Hauptplakat

MARTEDI, 22 GENNAIO ORE 17.30 CINETECA ALL'UNIVERSALE: PROIEZIONE DEL FILM "L'ONDA"

Un film "provocatorio" in quanto ripropone concetti come comunità, autorità, disciplina etc. ma "politicamente corretto" e banale nella sua conclusione, in quanto inverte i termini e le motivazioni della sopraffazione, rovesciando i valori di difesa e autodeterminazione con quelli di un individualismo assoluto.

UNA TAZZA DI THE, CIOCCOLATA, CAFFE PER ACCOMPAGNARE LA PROIEZIONE.

info 3394987052/ 3480468591

via F. Caracciolo, 12 Roma

metro A, Cipro

bus 490,492, 495, 31, 33, 913, 990,999, 907, 247, 180, 496

tram 19, parcheggio via Tunisi

Aggiornamenti EURASIA ( 14/01 – 20/01 2013 )

eurasia

 

Di seguito il sommario degli aggiornamenti della Rivista "Eurasia" dell’ultima settimana (dal 14 al 20 gennaio 2013):

Indice

  • Articoli e saggi
  • Pubblicazioni

Articoli e saggi

Massimo Aggius Vella, AVVOLTOI INTERNAZIONALI CONTRO IL LEVIATANO ARGENTINO

Aleksandr Mezjaev, L’INTERVENTO MILITARE IN MALI: OPERAZIONE SPECIALE PER RICOLONIZZARE L’AFRICA

Andrea Fais, GUERRA ALLA CINA: LA PREMONIZIONE DI JACK LONDON

Mahdi Darius Nazemroaya, LA CONQUISTA STATUNITENSE DELL’AFRICA: IL RUOLO DI FRANCIA E ISRAELE

Claudio Mutti, L’EURASIATISTA A CAVALLO

AGGIORNAMENTI SULLA CRISI SIRIANA: L’ATTENTATO TERRORISTICO ALL’UNIVERSITA’ DI ALEPPO

Pubblicazioni

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domenica 20 gennaio 2013

Il regno nascosto

ilregnonascosto

Le atmosfere tolkieniane del “Signore degli Anelli” continuano a far sognare  appassionando le nuove generazioni  con i loro mondi magici, con i loro personaggi fantastici ed affascinanti,  con una
morale sempre attuale che è ancora quella del bene che trionfa sul male, ma trattata e ragionata in maniera mai scontata. L’immortalità di questi mondi e di questi esseri, creati dal nulla, racconta una storia nella storia: quella di quando, negli anni Settanta, la lettura di Tolkien
entrò a far parte del modo di vivere e di pensare di una comunità.
Parlare di cultura di destra è quasi un’eresia, in certi ambienti. Lo è di certo nei salotti radical-chic in cui solo chi ne fa parte si sente in diritto di parlare, dall’alto della propria cattedra. Sono loro che danno i giudizi, loro che emettono le sentenze. Loro sono i depositari della cultura, come pure dell’arte, in tutte le sue forme.
Negli anni Settanta, però, Tolkien lo leggevano i ragazzi di destra. Si, quelli dei Campi Hobbit, quelli del Fronte della Gioventù, quelli di Terza Posizione … quelli che venivano etichettati come “mostri” e “violenti”, erano gli stessi che lasciavano correre la propria fantasia sulle lande incantate della Terra di Mezzo, o lasciavano che essa si arrampicasse
in cima al Monte Fato.
Oggi la trilogia del Signore degli Anelli l’hanno vista tutti.
“Lo Hobbit” fa ottimi incassi al box-office, “va-di-moda”.
Oggi tutti sanno chi è Aragorn, se si parla di Hobbit chi non
sa che sono dei “mezzi uomini” dai piedi grossi e pelosi, tenaci, onesti, leali? Se si parla della Compagnia dell’Anello tutti, ma proprio tutti, cominciano ad elencare: Frodo, Sam, Merry, Pipino, Aragorn, Boromir, Gandalf, Gimli, Legolas. I nove della Compagnia dell’Anello sono ormai più famosi dei Sette Nani di Biancaneve.
Tutti lo sanno, perché la trilogia cinematografica è meravigliosa. E’ certamente più appassionante guardarsi un film, sebbene della durata di circa tre ore, piuttosto che mettersi a leggere un librone di oltre mille pagine. Quelli degli anni Settanta, invece, il librone di mille pagine lo hanno letto. E ne hanno appreso l’insegnamento, fino in fondo. Oggi sono uomini adulti, e spesso quelle storie le leggono ai loro figli,
al posto della fiaba di Cappuccetto Rosso.
Pochi sanno, però, che quelle fantastiche storie produssero, insieme alla possibilità di viaggiare con la mente e di apprendere importanti lezioni di vita, anche qualcosa di concreto e di importante: gli Hobbit e La Compagnia dell’Anello, per esempio, sono gruppi di musica alternativa.
Bravi, peraltro. “Il regno dei nani” è una bella canzone di Gabriele Marconi. “Il regno nascosto” è un coinvolgente libro, sempre di Marconi. Potremmo andare avanti così a lungo: erano gli anni Settanta, dunque, e mentre il mondo correva dietro alla speculazione edilizia con il boom economico, o si andava a far fare il lavaggio del cervello a teatro ad ascoltare Dario Fo che predicava in favore di Soccorso Rosso Militante, o Franca Rame che mandava le rose
rosse in carcere all’assassino di Carlo Falvella , questi giovani, oltre a fare sana militanza per strada, vicini alla gente, leggevano Tolkien e formavano così in se stessi la consapevolezza di che tipo di uomini sarebbero diventati.
Uno di questi era proprio Gabriele Marconi: lo abbiamo già incontrato, nella nostra rubrica, parlando di altri suoi volumi. Oggi Gabriele, nella videointervista che trovate nella sezione video del portale del Giornale d’Italia, ci racconta il suo primo fantasy: “Il regno nascosto”, scritto a
quattro mani con Errico Passaro.
“Il regno nascosto” racconta la storia di Althorf e dei suoi due nipoti, Vitur e Tekkur, che sono gli unici Nani rimasti nel villaggio di Cuterbor.  Essi hanno vissuto a lungo insieme agli Uomini abitando quartieri all’interno delle loro città, ma il richiamo della propria terra è forte, e
dunque i Nani decidono di lasciare le loro case per cercare un luogo idoneo per ricostruire il loro regno, nel grande Nord.
Le atmosfere de “Il regno nascosto” sono ispirate consapevolmente a Tolkien, come pure gli insegnamenti che vi sono contenuti: quello della fratellanza innanzitutto. Quello dell’intimo ed inscindibile legame alla propria terra, poi.
Quello della caparbietà, della tenacia, della volontà di raggiungere la meta nonostante le mille difficoltà che si possono incontrare sul proprio cammino. Insegnamenti che emergono, vivi, in un’appassionante avventura in un mondo magico.
“Tolkien era un linguista, prima di tutto – dice Marconi – Inventò nel vero senso della parola la lingua elfica, e da lì nacque poi la sua produzione letteraria. La storia nacque quasi per caso: Tolkien era un insegnante, stava correggendo i compiti di inglese quando, su una pagina lasciata in bianco, scrisse: “In un buco del terreno viveva uno Hobbit”, senza sapere neppure lui cosa fosse uno Hobbit.”
I personaggi nati dalla fantasia di Tolkien sono tantissimi, perché Gabriele ha scelto proprio i Nani?
“Per la loro caparbietà – dice – sono testardi come muli,
determinati. Ne ammiro la volontà, la forza di non piegarsi
mai. Il racconto lo avevo scritto a penna in un’agenda - continua – fu Passaro a “decifrare” i miei geroglifici e a dare loro una forma. Poi l’opera tornò nelle mie mani, per una rivisitazione. Poi di nuovo nelle sue. Dopo molti passaggi arrivammo alla pubblicazione”.
Di Gabriele Marconi abbiamo già parlato in un’altra puntata della nostra rubrica domenicale, quando affrontammo due testi importanti dello stesso autore, “Io non scordo” e “Noi”.
Parlammo degli anni Settanta e Ottanta, dei troppi giovani uccisi per strada, di amici con cui l’autore aveva condiviso tutto, di ricordi. Questo è un libro diverso, indubbiamente.
Innanzitutto è un fantasy, e come tale possiede un linguaggio
più impostato, meno “diretto” se così si può dire. Ma anche
qui c’è tutto Gabriele Marconi, quello che abbiamo già conosciuto quando ci ha parlato di fratellanza, di lealtà, di amicizia, di condivisione, di forza di volontà. Tutto questo c’è anche qui, in questo libro che può certamente costituire un momento di evasione, che può indubbiamente essere un’occasione per rilassarsi leggendolo, ma che possiede anche la capacità di trasmettere quei valori che  costituirono
l’essenza dei personaggi tolkieniani.
Gabriele è stato sempre un grande estimatore del linguista britannico: nel 1988 giunse in finale al premio Tolkien con il suo racconto “Il Guardiano”.  Come per le belle favole, “Il regno nascosto” ci trascina in un mondo di fantasia, ricco di scenari affascinanti e attraverso un linguaggio semplice ma ben strutturato, lascandoci la possibilità di acquisire valori ed insegnamenti in modo piacevole.

Emma Moriconi

Intervista a Gabriele Marconi su “Il Giornale d’Italia”

venerdì 18 gennaio 2013

Dove sta lo scandalo???

Magnifico il commento pubblicato sul “Il Messagero” all’articolo relativo ad un’interrogazione parlamentare del PD.

ediliziafascista

Non vedo proprio nulla di strano, si tratta di storia non mistificata, del resto l'INPS allora INFPS è un capolavoro di efficacia ed efficienza, oltre al vero welfare a suo tempo gestiva in maniera superlativa anche i sanatori per curare la TBC e fare rientrare al più presto i lavoratori nella loro piena attività: Del resto ci sono decine di siti che trattano lo stesso argomento e nessuno si turba. I testi che studiavo in una Accademia Militare dicevano le stesse cose, allora tocca epurare anche RAI STORIA dove alle 23 di sera continua a trasmettere servizi e documentari LUCE a livello apologia, ove si evince che a parte la sciagurata guerra e le odiose leggi razziali, il resto funzionava alla perfezione dalla scuola, all'università, ai trasporti, agli ospedali, alle ferrovie, alla navigazione, alle opere pubbliche, all'assistenza sociale, l'agricoltura, mancava la libertà ma almeno c'era l'orgoglio di essere italiani. Basta farsi un giretto per Roma e notare che dopo le opere degli Imperatori Romani, della Chiesa Cattolica il resto è opera del Fascismo, dopo abbiamo avuto la libertà., Tor Bella Monaca, Corviale e abusivismo!!!

Commento inviato il 17-01-2013 alle 19:31 da GIAMPI30

giovedì 17 gennaio 2013

Jan Palach: da poca brace un grande incendio?

San Venceslao, duca di Boemia all’inizio del X secolo, è il simbolo dell’indipendenza e dell’unità nazionale. La sua statua, a cavallo, s’erge imponente con alle spalle il Museo Nazionale che domina la parte alta della piazza e che porta il suo nome ed è la principale della città di Praga. Un canto natalizio lo definisce il ‘buon re Venceslao’. Al tempo del regime comunista vi sferragliavano tram traballanti e dalla vernice scrostata. Ai suoi piedi una piccola aiola a prato ricorda le vittime del comunismo. Jan Palach, in primo luogo, che qui, il 16 gennaio del 1969, si diede fuoco. Fu il primo in una tragica e volontaria estrazione a sorte. Altri, poi, lo seguirono. Egli se ne andò fiero e disperato e si versò la bottiglia di benzina e trasformò se stesso in torcia a rischiarare la notte grigia, quella notte grigia che, spessa e cupa, soffocava i tetti gli antichi palazzi le vie strette e le caratteristiche botteghe della città d’oro. Dal 1948 con il colpo di stato dei comunisti e il tacito assenso della logica di Yalta. Oggi, nei pressi dell’ingresso della facoltà di filosofia, di cui era studente, il suo volto è inciso su una stele di bronzo e accompagnato da una lunga iscrizione.
Un mito, riproposto nell’esangue e indifferente Occidente, ad esempio da Francesco Guccini in ‘Primavera di Praga’. Su quell’aiola, nonostante il restaurato governo satellite dei sovietici, pur in progressiva e inarrestabile agonia, si sforzasse di mostrare i muscoli, ogni giorno anonimi passanti vi deponevano fiori. Vi ho portato, 1996, gli alunni della VB  nell’anno della maturità e, rigidi compresi e raccolti, hanno voluto simbolicamente dedicargli un ‘presente!’.

Un’aiola sul marciapiede, frammento d’altra mente ed altro cuore, e di contro l’inesorabile onnivoro  Mcdonald’s le pubblicità cubitali e luminose modello USA, palazzi nuovi e altrettanto orribili che chiudono l’altro lato della piazza. Due prigioni, una ferrigna una caleidoscopica, dal grigiore mefitico dello stalinismo all’oscenità variegata della liberal-democrazia. Non è dato percorso alternativo? E fra i miei alunni scorgevo l’ombra triste e, al contempo, sorridente di Riccardo, confuso tra la folla urlante i mostri d’acciaio le facce mongole e stupide su di essi le bandiere blu bianche e rosse le ragazze in minigonna i giovani dalle camicie a quadretti e i capelli lunghi e quella macchia di sangue rappreso. Agosto ’68. Cantava Franco Battiato: ‘la primavera tarda ad arrivare’, no, rapidamente è sfiorita quella primavera. Eppure io voglio restare fedele a ciò che poteva essere e non è stata, alle tante visioni incompiute di un’Europa che aveva chiesto di collocarsi al di là di quella tenaglia a stelle e strisce e dalla falce e martello. L’Europa delle Nazioni, della giustizia sociale, della sua tradizione di cultura e delle grandi avventure dello spirito, di uomini in armi e per mari sconosciuti a inseguire un sogno, dei campi e delle officine, delle sue giovani donne e ridenti bambini…

16 gennaio 1969 – 16 gennaio 2013. Dalla finestra vedo scendere fitta la pioggia. C’era il sole in agosto. Eravamo arrivati con il sacco a pelo, lo zaino in spalla, attraverso l’Austria verde il caldo appena mitigato da un leggero vento della sera i camionisti accondiscendenti di caricarci lungo il ciglio delle strade. Da giorni si parlava di crisi imminente, di minacce del Patto di Varsavia, di truppe e mezzi corazzati alle frontiere. Nel salone della casa dello studente poco fuori città, dove avevamo trovato economico alloggio, Riccardo ed io eravamo intenti a vuotare grandi boccali di birra e provocare le ragazze fra luci soffuse e musica a tutto volume. Birra tanta; sesso poco. Poi l’improvviso tacere degli strumenti musicali, sul palco un giovane ufficiale prende il microfono, parole aspre, volti smarriti, il pianto a dirotto di una fanciulla dai capelli color stoppa, delle tante lacrime e del fuggi fuggi generale. L’invasione… Ci ritroviamo in camerata con due coetanei di Udine, iscritti al PSIUP (chi si ricorda di quel partito, espressione dell’ennesima scissione socialista ed atto di servilismo al PCI?). Costante il rombo degli aerei, delle colonne dei cingolati. Li spiamo dalle tapparelle abbassate, mentre in nome dell’’internazionalismo proletario’(sic!) i due compagni ci invitano a non impicciarci. Bava alla bocca, colorito cereo, ma – si sa – che il sol dell’avvenire sovente assume il medesimo colore della diarrea…

Va be’, non passiamo da eroi salgariani e facciamola breve. Si prendono i passaporti e le nostre cose e giù verso il centro della città… Ci ritroviamo con altri giovani provenienti da diversi paesi europei, soprattutto francesi, i più decisi i più battaglieri. Sta nascendo un nuovo ‘fronte dell’est’ per un’armata di Waffen-SS stracciona capellona blue-jeans, inebriata dalle canne, birra sesso e rock’n’roll, improvvisamente ridestata dalla noia soporifera del quotidiano conformismo cialtrone e democratico? Dura poco. Facciamo l’errore di raggrupparci per un panino vicino la discoteca più frequentata e dove ci attendono gli agenti in borghese della polizia politica con accompagno di uomini in uniformi pistole mitra spianati. Con poco garbo e molta decisione spintonati e sollevati di peso su autocarri e pullman, direzione il confine austriaco.

L’Europa dei banchieri già sorrideva segretamente e strizzava l’occhio all’orso sovietico. Dal suo disfacimento altre filiali tassi d’interesse prostituzione sfruttamento dei salari in quel meccanismo perverso di ‘lavora-produci-consuma’. E Jan Palach in poca cenere… Già, ma ‘agnosco veteris vestigia flammae’, come scrive Virgilio e come riprende Dante. Da poca brace un grande incendio…

Chissà?!

Michele Mario Merlino

Da: http://www.ereticamente.net

martedì 15 gennaio 2013

Il suicidio dell'hacker Swartz e il caso Assange

L'hacker americano Aaron Swartz si suicida. E' la prima vittima del caso Wikileaks.

aaron-swartz

Tutto il mondo della Rete è colpito dal suicidio dell'hacker statunitense Aaron Swartz, 26 anni, uno dei responsabili del progetto Creative Commons.

Clicca qui per leggere l’intero articolo

lunedì 14 gennaio 2013

Aggiornamenti EURASIA (07/01 – 13/01 2013)

eurasia

Di seguito il sommario degli aggiornamenti della Rivista "Eurasia" dell’ultima settimana (dal 7 al 13 gennaio 2013):

Indice

  • Articoli e saggi
  • Pubblicazioni

Articoli e saggi

I PUNTI SALIENTI DEL DISCORSO PRONUNCIATO DAL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ARABA SIRIANA, S.E. DR. BASHAR AL – ASSAD, IN DATA 06/01/2013

Mahdi Darius Nazemroaya, FINE DEI GIOCHI IN SIRIA

ASSAD: IL PROGRAMMA POLITICO PER RISOLVERE LA CRISI

Andrej Akulov, LA MILITARIZZAZIONE DELLO SPAZIO USA

Aldo Braccio, ECONOMIA TURCA FRA CRESCITA IMPETUOSA E TIMORE DI ATTACCHI SPECULATIVI

LA NATO FINANZIA, ARMA E COMBATTE AL-QAIDA

Pubblicazioni

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sabato 12 gennaio 2013

Secondo la Cassazione Fini non potrebbe ricoprire incarichi pubblici…

togherosse

…E come lui Alemanno, la Meloni, Gasparri e alcune centinaia di migliaia di italiani che in gioventù hanno anche solo “simpatizzato” per il Movimento sociale italiano. Questo è quanto si desume dalla sentenza della Cassazione che ha assolto – smentendo due condanne precedenti – un blogger che nel 2005 aveva definito l’attuale vicedirettore del Gr1 Rai Stefano Mensurati un “picchiatore fascista” (v. articolo di ieri sul Secolo). La sentenza spiega che la definizione data dal blogger è da ritenersi legittima perché lo stesso Mensurati ammise in un’intervista di aver simpatizzato per il Fronte della Gioventù. E questo basterebbe per ritenere corretta la definizione di “picchiatore”. Ma la sentenza va ben oltre la negazione della tutela della legge per chiunque abbia coltivato nel corso della sua vita idee di destra e si spinge a criticare la Rai per aver affidato nel 2005  un programma di grande ascolto come Radio anch’io a «una persona la cui ben precisa posizione politica non corrisponde a quella della maggioranza degli italiani e ai principi costituzionali in cui essi incondizionatamente credono». Quindi in Italia la magistratura ha il potere di decidere senza contradditorio e senza bisogno di prove quale sia la posizione politica (addirittura “precisa”) di un cittadino, ascrivere allo stesso una distanza dai principi costituzionali e considerarlo – per la sua posizione ideologica (arbitrariamente ascrittagli) – da marginalizzare socialmente e professionalmente perché la maggioranza degli italiani (sempre secondo i giudici) la penserebbe in modo diverso. Quindi d’ora in poi per fare il giornalista nel servizio pubblico ci vuole un certificato di conformità ideologica sottoposto all’assoluta discrezionalità dei tribunali politicizzati. Come nella Cina di Mao e nella Russia sovietica. O, se si vuole, nella Germania nazista. Nessuno ha sollevato una voce di protesta. Colpisce l’assordante silenzio in particolare di associazioni votate alla difesa del diritto di espressione come l’onniloquente Articolo 21 dell’onorevole Giulietti. Tra l’altro il principio che indirizza la sentenza in oggetto confligge – oltre che con la nostra Costituzione – persino con la Carta dei diritti dell’Uomo, che sancisce che «ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di uguaglianza ai pubblici impieghi…». Questo secondo la Cassazione non dovrebbe valere per Mensurati o per chi abbia fatto espressione di idee di destra, anche in un lontano passato. Infine: se si è stati condannati per un reato almeno dopo anni si può essere “riabilitati” e non essere più penalizzati per il pregresso giudiziario, se si è stati iscritti o simpatizzanti della destra invece si è marchiati a vita, senza possibilità di redenzione. Che ne dice il Csm? Che ne dice la Corte costituzionale? Ma, soprattutto, che ne dicono l’ex presidente del Fdg poi presidente della Camera e il sempre vigile presidente Napolitano?

Marcello de Angelis

Da: http://www.secoloditalia.it

giovedì 10 gennaio 2013

Alberto Giaquinto: l’ultima vittima di Acca Larentia

Alberto_Giaquinto

“Avete inventato un mondo di storie/perché voi volete una cosa sola,/volete la fine dei camerati,/vi siete sbagliati,/proprio sbagliati./Celerino uomo di paglia/ vile assassino, sporca canaglia/ sparasti alla nuca come in battaglia/ Sparasti ad Alberto un ragazzo biondo…”Castel Camponeschi. Abbruzzo. Luglio del 1980. Terzo “Campo Hobbit”.  Ad un anno di distanza dalla morte di Alberto Giaquinto, i ragazzi del Fronte della Gioventù lo ricordano così, cantando con la voce rotta dalla commozione e dal dolore, una canzone che racconta la sua storia. Ad ammazzarlo è stato un poliziotto. Gli ha sparato alla nuca. Come solo i vigliacchi osano uccidere. Era alla manifestazione per il primo anniversario della strage di Acca Larentia, Alberto. A Roma, quartiere Centocelle.
Il 1978 è un anno maledetto. Di quelli che fanno da spartiacque nella storia d’Italia. Un anno che si apre con una lunga scia di sangue che sembra destinata a non interrompersi mai. Il 7 gennaio, sull’asfalto dell’Appio Latino, cadono Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ammazzati senza pietà dai NACT, gruppo semisconosciuto di terroristi comunisti. La sera stessa, Eduardo Sivori, un ufficiale dei Carabinieri, spara ad altezza d’uomo sulla folla che si è radunata per rendere omaggio ai due missini uccisi. Stefano Recchioni, un militante di 19 anni di Colle Oppio, non ha scampo. Un proiettile calibro nove lo colpisce in piena fronte. Si spegnerà, dopo due giorni di agonia, al “San Giovanni”. È la terza vittima di Acca Larentia, ma non è l’ultima. Il 9 Maggio di quello stesso, dannato, anno, le Brigate Rosse fanno ritrovare in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. Nel frattempo, a destra, sono nati i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Cominciano i primi morti per mano dei “neri”. Si parte con le pistole, poi si passa agli assalti alle armerie, alla fine si arriva direttamente ad usare le bombe a mano. La pioggia dell’inverno del ’78 ha lavato via le pozze di sangue di Franco, Francesco e Stefano davanti alla sezione del MSI di Acca Larentia. Ma nei cuori dei camerati, il ricordo dell’eccidio è ancora indelebile. Nessuno dei responsabili è stato punito. I “compagni” che hanno sparato, non sono mai stati individuati. Sivori, invece, è stato fatto allontanare da Francesco Cossiga in persona per “evitare eventuali rappresaglie”. In molti, proprio per questo motivo, hanno lasciato il partito. Si sono sentiti abbandonati. Dai dirigenti e da Giorgio Almirante in particolar modo, si aspettavano molto di più. Tanti di quelli che hanno militato nel MSI decidono che il gioco al massacro, messo in piedi dai comunisti, va fronteggiato con le loro stesse armi e passano con i NAR. Alberto Giaquinto no, lui non ci pensa nemmeno ad entrare in un gruppo eversivo. Ha solo 17 anni in quell’inverno del 1979. È poco più di un ragazzo. Studia al liceo “Peano”. È bello. Ha i capelli biondi. Si veste già da adulto, in giacca e cravatta, ma ha ancora il sorriso pulito di un bambino. Abita all’Eur. Va spesso al “Bar del Fungo”, noto nella zona perché frequentato da Franco Anselmi (l’estremista dei NAR ucciso nell’assalto all’armeria Centofanti). Ha una moto, una Honda, di cui va orgogliosissimo, la tiene come un gioiellino. Suo padre è proprietario di una farmacia ad Ostia. La famiglia è benestante e di questo, dopo la sua morte, si riuscirà a farne una colpa. Sono gli anni assurdi degli opposti estremismi, della lotta di classe ed essere “borghese” è un aggravante. O meglio, una scusante, se vieni ammazzato. Anche se a farlo è un poliziotto.È di destra, Alberto. Per l’età che ha, fa ancora parte del Fronte della Gioventù. Ma ha amici più grandi, del Fuan, gli universitari del MSI. Sono alcuni di loro, ad organizzare per il 10 gennaio, una manifestazione non autorizzata in ricordo della strage di Acca Larentia. Il problema non è il corteo, ma la zona che è stata scelta, quella di Centocelle, uno dei quartieri più “rossi” di Roma. Chiunque vada, rischia grosso. I “compagni” non aspettano altro che l’ennesimo scontro. Sì, perché solo ventiquattr’ore prima,  i NAR hanno fatto irruzione a “Radio città futura”, un’emittente dichiaratamente di sinistra. I conduttori avevano scherzato sul cognome di uno dei due missini uccisi all’Appio Latino, proprio nel giorno dell’anniversario: “Poracci, i ‘fasci’ so’ rimasti senza ‘na ciavatta”. I “neri” non perdonano. Entrano alla Radio, dove nel frattempo stava andando in onda una trasmissione femminista. Rovesciano una tanica di benzina nel locale. Danno fuoco a tutto. Bruciano. Sparano anche. Non muore nessuno, ma è comunque un gesto eclatante.Roma, quel giorno, non aspetta altro che il regolamento dei conti tra “fasci” e “compagni”. Alberto e molti altri ragazzi vogliono andare alla manifestazione. Non hanno intenti violenti. Solo l’imperativo, morale, categorico, di ricordare i loro camerati caduti un anno prima, esprimere la rabbia per un’indagine che non è mai decollata, senza colpevoli né sospetti. E con Sivori al sicuro, all’estero. Aspettano indicazioni dai quadri del partito. Nel primo pomeriggio, Gianfranco Fini (che, all’epoca, è il segretario nazionale del Fronte della Gioventù), dà il nulla osta. La rievocazione si farà, a Centocelle. Chissenefrega se rischia di scapparci il morto.È una vittima annunciata, Alberto Giaquinto. Ciò che nessuno si aspetta, però, è che il piombo sotto il quale cadrà è quello di un agente di pubblica sicurezza.In via dei Castani, Alberto, ci va in autobus. La moto la lascia a casa, non è il caso di rischiare di rovinarla. Ci va insieme ad Massimo Morsello (oggi scomparso anche lui, per un cancro, chiamato il “De Gregori Nero”, l’autore di Canti Assassini). Nessuno dei due conosce il quartiere. Quando arrivano, c’è un aria strana. La tensione è palpabile. Dall’altra parte della via c’è un corteo di donne che sta sfilando per protesta al raid dei Nar del giorno prima. All’improvviso, la situazione precipita. Alberto e un altro centinaio di ragazzi del MSI sono davanti alla sezione della DC, quando qualcuno prova ad assaltarla. Alla centrale operativa della questura arriva una chiamata: “sbrigatevi, che qui sfasciano tutto!”. Invece di una volante, arriva di corsa una Fiat 128 “civile”. Dentro ci sono due agenti in borghese. Uno dei due scende dalla macchina. Ha la pistola in mano. Vede distintamente che Giaquinto, Morsello e gli altri stanno scappando, in preda al panico. Sono di spalle. Nessuno lo aggredisce. Ma lui spara lo stesso. Ad altezza d’uomo. Il proiettile colpisce Alberto alla nuca. Cade a terra, in un lago di sangue. Alberto come Franco, come Francesco, come Stefano.La polizia impiega più di mezz’ora per far arrivare l’ambulanza che lo porterà al “San Giovanni”. Quando i medici si chinano su di lui, respira ancora. Ma per poco. Alle 9 di quella stessa sera del 10 gennaio, dopo due ore di agonia, muore fra le braccia di sua madre.Dal giorno dopo, come avevano fatto per Recchioni, tutti i giornali mettono in atto una campagna denigratoria contro Giaquinto. I più “teneri” diranno che l’agente ha sparato solo ed esclusivamente per legittima difesa, perché Alberto impugnava un P38 (il vero scandalo è che questa tesi verrà accolta nel processo contro l’assassino di Giaquinto, puntualmente prosciolto da ogni accusa). Stessa scusa usata per infangare Stefano e scagionare Sivori. I “pennivendoli” più fantasiosi racconteranno che “nella giacca del ragazzo sono stati rinvenuti diversi proiettili”. Anche stavolta, come per il missino di Colle Oppio, nessuno avrà il coraggio di ammettere che gli  erano stati messi in tasca per “giustificare” il ferimento.Ma le parole più vergognose sono quelle scritte (e non firmate) in un articolo di Lotta Continua del 16 gennaio: “Quelli dell’Eur sono figli della ricchissima borghesia romana, questi rampolli da galera che hanno come loro ritrovo bar e locali. Questi assassini hanno vita facile nei loro quartieri. Possono permettersi di pestare, sfregiare, sparare”. Non basta, c’è di peggio. L’attacco è mirato e diretto: “La vicenda di Alberto Giaquinto è esemplare. Figlio di un ricchissimo farmacista, viveva in una lussuosissima villa al Fungo. Qui si incontrava con i suoi amici, che raccontano della sua passione per i film  pornografici (pura invenzione, ndr). Quando è stato ucciso, aveva una Walter P38, ma non ha fatto in tempo ad usarla. Studente per bene la mattina, terrorista la sera”. È bene ricordare che, quando muore, Giaquinto non ha neppure compiuto 18 anni. La pistola non è mai stata trovata. Chi era con lui, ha giurato che Alberto non ha mai tenuto in mano un’arma. Tanto meno quella sera maledetta. Non ha imparato niente, Adriano Sofri, dall’omicidio di Luigi Calabresi. Il suo modo di fare “giornalismo”, a distanza di sette anni, è rimasto lo stesso: raccogliere e diffondere false informazioni sulla vittima designata. Farne un mostro. Fomentare l’odio contro i “nemici del proletariato” scelti a caso, nel mucchio. Anche se il bersaglio è un ragazzino. Morto ammazzato. Da un poliziotto. Mentre era in strada per ricordare una strage contr i suoi camerati.Se quella di Acca Larentia fosse stata una macabra partita fra “compagni” e “guardie”, sarebbe finita in parità. Due morti a testa ed un unico popolo, quello di destra, a piangere i suoi caduti.La storia di Alberto Giaquinto è tragicamente simile e collegata a quella di Stefano Recchioni. Come se la morte, con un orribile gioco di coincidenze, avesse voluto proseguire quella sequenza di giovani, poco più che ragazzini, ammazzati da chi avrebbe dovuto proteggerli. Accusati, da morti, di essere criminali.“Alberto non era armato di nulla,/di nulla lo giuro, proprio di nulla/quel che avete detto, son tutte balle/sparaste alle spalle senza pietà/ sol perché credeva che è primavera/ e un sole di vita presto verrà/ e se t’hanno ucciso Alberto Giaquinto/ ti giuro, ti giuro, non hanno vinto!”
Alberto è l’ultima, innocente, vittima della Strage di Acca Larentia.

Micol Paglia

mercoledì 9 gennaio 2013

GIOVEDI 10 GENNAIO ORE 20 A L'UNIVERSALE CINEAPERITIVO

battaglia_Algeri

L'UNIVERSALE via F.Caracciolo 12 Roma

Giovedi 10 gennaio ore 20

CINEAPERITIVO

proiezione del film

LA BATTAGLIA di ALGERI

di Gillo Pontecorvo

info: 3394987052

S’ invita ad essere puntuali

Leggere e diffondere l'allegato,grazie.

martedì 8 gennaio 2013

35 anni dopo: BOIA CHI MOLLA!

Franco Francesco Stefano: PRESENTE!

Aggiornamenti EURASIA ( 24/12/12 – 06/01/13 )

eurasia

 

Di seguito il sommario degli aggiornamenti della Rivista "Eurasia" delle ultime settimane (dal 24 dicembre 2012 al 6 gennaio 2013):

Indice

  • Articoli e saggi
  • Pubblicazioni

Articoli e saggi

Andrea Fais, LE MOSSE DELLA CINA NEL SETTORE DELLA DIFESA

Redazione, L’ISOLA DEL MONDO ALLA CONQUISTA DEL PIANETA

Augusto Sinagra, TRENT’ANNI DI REPUBBLICA TURCA DI CIPRO DEL NORD

Marzia Nobile, L’ASSOLUZIONE DI HARADINAJ: UN REGALO ALL’ALBANIA NEL CENTENARIO DELLA SUA NASCITA

Redazione, LEVIATHAN

Giovanni Valvo, FERDYNAND OSSENDOWSKI

Pubblicazioni

E' attualmente disponibile in libreria l’ultimo numero (4/2012) di "Eurasia" (XXVIII), intitolato "L’islamismo contro l’Islam?".

...E tanti altri articoli sono disponibili sul sito!

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sabato 5 gennaio 2013

7 gennaio 1978: Noi non dimentichiamo

"a volte i fiori di ciliegio si librano nel vento della sera anche fra i casermoni delle città: Franco, Francesco, Stefano..."

presente2013

“Osserva dell’alba il primo baglior/che annuncia la fiamma del sol/ ciò che nasce puro più grande vivrà/ e vince l’oscurità”. Cantano questi versi i giovani che, a metà degli anni settanta, si iscrivono al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI. Cantano “il domani appartiene a noi” anche Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, due ragazzi come ce ne sono a decine in quegli anni, diventati martiri loro malgrado. L’avrebbero intonata anche quella sera del 7 gennaio, al concerto de “gli amici del vento”, gruppo alternativo milanese di destra (una vera rarità per l’epoca). Ma non ci sono mai arrivati, uccisi su un marciapiede del quartiere Appio Latino, quando l’aria fredda dell’inverno sa ancora di Natale.Francesco e Franco, insieme Maurizio Lupini, Vincenzo Signeri e Giuseppe D’Audino, stanno chiudendo la sede della sezione di via Acca Larentia. Un nome che, per più di duemila anni, ha riportato alla memoria esclusivamente la figura di una donna romana, la madre adottiva di Romolo e Remo. Un nome ricoperto da un alone di mistero, fra mito e leggenda. Questo fino a quel pomeriggio di gennaio del 1978. Sono le 18.23, minuto più, minuto meno. La scrupolosità di risparmiare un po’ ha spinto i cinque ragazzi a spegnere la luce prima ancora di sprangare la porta. Sul tavolino hanno lasciato una nota per avvisare gli altri camerati: “siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Letto con il senno di poi, quel biglietto, sembra uno di quei macabri scherzi che il destino fa, per lasciare una traccia di se in grado di raggelare il sangue di chi resta a piangere i morti. Franco e Francesco guardano dentro, spalle alla strada, gli altri stanno uscendo. Non sanno che sono i loro ultimi istanti di vita. Non sanno che i “compagni” hanno già scritto la loro condanna.  All’improvviso, sei o sette figure scure, con dei cappelli colorati calcati sugli occhi per nascondere alla bell’e meglio la faccia, compaiono in fondo alla strada. Nessuno capisce cosa stia per succedere. Poi, una raffica di spari. Uno dietro l’altro. Senza motivo. Un urlo. Bigonzetti che cade a terra. Ciavatta lo segue immediatamente dopo. A coprire quell’orrore c’è la notte scura che è calata su Roma.D’Audino, di quella serata di gennaio ricorda molto. Ha raccontato quell’incubo surreale a Luca Telese, in un’intervista per il libro Cuori Neri. “Qualcuno mi tira dentro (la sezione, ndr). Io tiro dentro qualcun altro. La porta, bisogna chiudere la porta! E altri spari. Passi fuori, nuove urla. Poi il buio della sezione che ci avvolge e il silenzio che cade improvviso su di noi”. Aggiunge anche un’altra cosa, Giuseppe. “Io ne sono certo: se prima di uscire non avessimo già spento la luce, per l’ossessione della bolletta, sicuramente oggi non sarei vivo”. E che cosa ha significato riaccendere quell’interruttore, lo può capire solo chi era lì, in quel momento. “Io non posso togliermi dagli occhi quell’immagine. Noi eravamo ancora per terra e da sotto la soglia della porta entrava un lago di sangue che si allargava lentamente, come se si stesse avvicinando a noi”. Una scena surreale. Da film.Giuseppe, Mario e Vincenzo (che è stato colpito di striscio) escono per provare a capire che cosa sia successo. Il sangue che hanno visto è quello di Franco. Ha il volto devastato dai proiettili. Irriconoscibile. E quel corpo dilaniato da una inspiegabile follia omicida sarà offerto alla mercè di tutti “grazie” alla foto di un giornalista de “L’Espresso”, che la pubblicherà una settimana dopo l’eccidio. A pochi passi da Franco, c’è Francesco. È ancora vivo, lui. Si sforza di parlare, altruista fino in fondo, eroe suo malgrado: “Non pensate a me. Pensate a Franco che sta messo peggio”. Non lo sa, non ha potuto rendersene conto, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Non lo sa, non se ne rende conto, o forse sì, ma sono anche i suoi ultimi respiri. Riesce a solo a sussurrare con un filo di voce: “aiuto, mi brucia tutto, aiuto”. Poi più niente. La corsa disperata in ospedale è inutile. Arriveranno entrambi cadaveri.Viene portato via da un’ambulanza anche Signeri. E la sua foto, sulla barella, mentre tenta di fare il saluto romano (trattenuto con violenza degli infermieri) prima di entrare in Pronto Soccorso, urlando di rabbia, è il simbolo di quelle ore drammatiche e assurde.L’azione verrà rivendicata poco dopo da una sigla semisconosciuta e dal nome che vuol dire tutto e niente: “Nuclei Armati per il contropotere territoriale”, i NACT. Di gruppi così, di questi tempi, ce ne sono a dozzine. Sparano e ammazzano senza pudore, senza pietà. Gli omicidi hanno uno scopo, però. Sono i cosiddetti “battesimi di sangue” che servono per fare il “salto di qualità” ed entrare nelle Brigate Rosse. È bene non dimenticare mai che, quel 1978, è l’anno che segnerà per sempre la storia d’Italia. È l’anno dell’assassinio di Aldo Moro e le BR sono il gruppo di riferimento fra i nuclei della sinistra extraparlamentare che hanno deciso di votarsi al terrorismo.I NACT, anche se poco conosciuti, sono molto ben organizzati. Hanno uomini (e donne). Hanno armi. Ad Acca Larentia vanno preparati, vogliono ammazzare e sanno come si fa. Alcuni dei 7 che compongono il commando sparano con pistole a canna corta calibro 9, che di solito ha in dotazione l’esercito. Ma i colpi che uccidono Franco e Francesco partono da un revolver calibro 38 e da una mitraglietta Skorpion. Un’arma micidiale, in grado di sparare più di venti colpi al secondo. La nota che rivendica i due omicidi, letta a 35 anni di distanza, fa ancora rabbrividire: “Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga”. “Le parole sono pietre”, scriveva Primo Levi ed è bene ripeterle, perché il tempo non ne cancelli il peso e non faccia scomparire il ricordo delle vittime.Sì, le vittime. Franco e Francesco. Due missini ragazzi, con la faccia pulita e la testa ancora china sui libri. Uno -di 19 anni- al primo anno di medicina a “La Sapienza”, l’altro -appena maggiorenne-  studente dell’istituto tecnico industriale “Tiziano”. La furia omicida dei NACT li ha strappati via alle famiglie senza nessun motivo. E, come spesso accade, c’è chi non riesce a sopportare di sopravvivere ad un figlio morto così. È il caso del padre di Ciavatta, portiere in un condominio di via Deruta, zona Tuscolano. Un uomo del popolo, cui i borghesi  (autonominatisi) difensori del proletariato hanno portato via il sangue del suo sangue. Non ha retto, il papà di Francesco, che pochi mesi dopo la strage di Acca Larentia si è suicidato bevendo una bottiglia di acido muriatico.E non è questa l’unica tragedia seguita alla folle azione dei NACT. Sì, perché la morte di Franco e Francesco si portata dietro una scia di sangue, finita solo un anno dopo quel maledetto 7 gennaio del 1978. La sera stessa degli omicidi di Ciavatta e Bigonzetti, sull’asfalto di via Acca Larentia cade un altro ragazzo. Stefano Recchioni. Questa volta non sono i “compagni” a sparare. È un carabiniere, Edoardo Sivori. Uno di quelli  chiamati per sedare la folla di camerati inferociti che si è radunata davanti alla sezione dell’Appio Latino. Poi, un’altra vittima. Un altro ragazzo. Un altro missino. Un anno dopo. Questa volta a Centocelle. Alberto Giaquinto viene ammazzato come un cane da un poliziotto in borghese, durante i tafferugli scoppiati mentre si sta ricordando quella tragica giornata di gennaio del ’78. Le loro storie, quelle di Stefano e Alberto, meritano di essere raccontate a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, nei prossimi giorni. Queste morti, per mano di uomini dello Stato, non devono essere confuse con l’azione punitiva messa in atto dai terroristi. Vicende diverse, unite da un unico, orribile, fil rouge.C’è una canzone che ricorda i fatti di Acca Larentia. Tutti, senza distinzione. S’intitola “generazione ‘78” e nel testo ci sono due frasi che racchiudono il nonsenso di quel freddo pomeriggio d’inverno: “Poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri, troppo sangue sparso sopra i marciapiedi e la tua generazione scagliò al vento le bandiere, gonfiò l'aria di vendetta senza lutto, né preghiere.”Questa è la storia di Franco e Francesco. Ed è solo l’inizio…

Micol Paglia

accalarentia

E non è ancora finita...

Quando sull'asfalto dell'Appio Latino non si è ancora rappreso il sangue di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, Eduardo Sivori (un ufficiale dell'Arma) spara in fronte al giovane parà di Colle Oppio, che morirà solo dopo due giorni di agonia

Sull’asfalto di Acca Larentia c’è ancora il sangue fresco di Francesco e Franco quando, davanti alla sezione, si raduna un gruppo di camerati. Tra di loro c’è anche Stefano Recchioni che, senza saperlo, cadrà sul selciato di quella via maledetta, ammazzato a sangue freddo dalla mano di un carabiniere, di un “tutore” dell’ordine. Oramai è notte. Il buio ed il gelo sono calati su quella folle giornata che, però, non ha ancora finito di mietere vittime.  Qualcuno posa a terra una bandiera nera con la fiamma del MSI ricamata sopra, proprio accanto al punto in cui è caduto Bigonzetti. La notizia dei ragazzi ammazzati come cani dai “compagni” si è diffusa in un baleno. In poche ore la piazzetta e la scalinata che erano state il teatro di quell’assurdo massacro, si riempie di una folla rabbiosa e attonita al tempo stesso.

Stefano, quel pomeriggio, mentre i NACT sparano senza alcuna pietà su Franco e Francesco, è in giro con una sua amica, Iolanda Tallarico. Frequentano tutti e due la storica sezione del Fronte della Gioventù di Colle Oppio (il MSI ha lì una delle sue primissime sedi), a due passi dal Colosseo. Vanno a fare volantinaggio con gli altri ragazzi. Parlano tra di loro di politica. Sono uniti. Legati, dalla militanza e non solo. Si vogliono bene.

È un bravo ragazzo, Stefano, primo di cinque figli (quattro maschi e una femmina). Si è diplomato da poco al liceo “Massimo”, a Roma. Ha 19 anni. Ne dovrebbe compiere venti dopo appena due settimane. Ma un destino crudele ha già deciso che lui deve essere la terza, innocente, vittima di quel 7 gennaio del 1978. Sua mamma è antifascista, ma lo ha cresciuto libero di pensarla come vuole. È bello, Stefano. Ha gli occhi azzurri, i capelli biondi, un sorriso che riempie il cuore e una faccia d’angelo. È sicuro di sé, educato, composto. Non importa che cosa scriveranno i giornali dopo la sua morte, per infangarne la memoria e salvare la faccia al suo assassino. Sì, perché la sua “colpa” sarà quella di essersi fatto ammazzare da un carabiniere. Finite le superiori ha deciso di fare una scelta diversa da molti suoi coetanei, ma coerente con ciò in cui crede: si è arruolato, nella Folgore. Vuole diventare un parà. “Pensa che bello, la prossima settimana farò il mio primo lancio”, lo dice a Iolanda, proprio quel pomeriggio d’inverno. Non lo sa, ma quelle parole resteranno soltanto un sogno stroncato sul nascere. 

Quando arriva la notizia della sparatoria ad Acca Larentia, i ragazzi Colle Oppio hanno appena finito di attaccare i manifesti. Rimangono tutti senza fiato. Decidono di correre all’Appio Latino. Iolanda non va con loro, è già tornata a casa, troppo giovane per andare in giro di notte. Ma Stefano no. Lui si precipita, uno di quelli a cui hanno sparato è suo amico. Davanti alla sezione c’è già parecchia gente quando arrivano. Sono quasi tutti in silenzio. Qualcuno urla, accusa i dirigenti del MSI: “Oramai siamo come pupazzi al tirassegno!”. “Non possiamo continuare a fare da bersaglio per i compagni”. Recchioni la pensa come loro. È molto critico nei confronti di Almirante e degli altri vertici del partito. In mezzo a tutta quella gente c’è anche uno strano personaggio. Si chiama Franco Anselmi. È uno che, in un modo o nell’altro, c’è sempre quando ammazzano un camerata. Porta con sé un feticcio, non se ne separa mai. È il passamontagna che il 28 febbraio del 1975 è stato macchiato dagli schizzi si sangue di Mikis Mantakas. Il giovane militante greco, di destra, ammazzato dai compagni a Piazza Risorgimento dopo la lettura della sentenza per il Rogo di Primavalle. Franco ha deciso che la morte di Ciavatta e Bigonzetti non può restare senza colpevoli. Così, in un macabro rituale compiuto fra sé e sé, intinge il passamontagna nel sangue di uno dei due missini caduti all’Appio Latino. La sua sete di vendetta lo porterà a schierarsi dalla parte sbagliata. Poco dopo l’eccidio dell’Appio Latino, entra nei NAR. Il 6 marzo del ’78, con altri terroristi neri, tenta l’assalto ad un’armeria in via Ramazzini, al quartiere Gianicolense. Il proprietario, terrorizzato, spara e uccide Anselmi.(N.B. In realtà il proprietario dell’armeria lo colpisce quando Franco sta andando via dopo la rapina)

Il tempo passa e la folla nella piazzetta di Acca Larentia aumenta a dismisura. Iniziano ad arrivare anche le forze dell’ordine. Carabinieri da una parte, Polizia dall’altra. In mezzo i camerati. La stradina dell’agguato a Franco e Francesco diventa una polveriera pronta per esplodere. Basterebbe un non nulla per far scoppiare gli scontri, anche se l’intento dei ragazzi non è certo quello fare un altro morto. Due in una giornata bastano e avanzano. Però c’è una strana elettricità nell’aria. La tensione è alle stelle. Ad un certo punto –secondo la versione di gran parte dei presenti- un operatore del TG1, che accompagna un giornalista, getta un mozzicone di sigaretta nella pozza di sangue, non ancora rappreso, di Francesco Ciavatta. Probabilmente il suo è un movimento distratto, non voluto. Per i camerati, però, quel gesto grida spregio, disprezzo per il loro dolore. È la goccia che fa traboccare il vaso. Scoppiano dei tafferugli. La polizia trascina via l’operatore che rischia di essere linciato dalla folla inferocita. La rabbia monta. Per calmare la folla, le forze dell’ordine iniziano a sparare lacrimogeni a tutto spiano. Ottengono la reazione opposta. È il caos. Comincia una sassaiola contro i carabinieri. In mezzo c’è pure Stefano. È disarmato. Ma questo non basta. Un agente, Edoardo Sivori, si fa prendere dal panico, non ci capisce più niente. Spara. Uno, due colpi. Ad altezza uomo. Poi cade a terra. Si rialza, rimette la pistola nella fondina. Uno dei due proiettili ha centrato Stefano in fronte.  Accanto a lui, mentre si accascia sull’asfalto di Acca Larentia, c’è Bruno di Luia, uno dei quadri del MSI. Non fa a tempo a dire “ma questi ci stanno a sparà!” che vede la fontanella di sangue sgorgare dalla testa di Recchioni. Si china su di lui. Respira ancora. Lo solleva di peso e lo porta di corsa al San Giovanni. Quando arriva al Pronto Soccorso è già in coma profondo. I medici lo attaccano alle macchine. La diagnosi è spietata: encefalogramma piatto. 

Non c’è speranza. Stefano muore il 9 gennaio. Dopo due giorni di agonia.

Nel frattempo, alla Camera, arriva una telefonata urgente per Francesco Cossiga che –all’epoca- è ancora Ministro dell’Interno. Dall’altra parte della cornetta c’è, agitatissimo, il Comandante Generale dell’Arma. Parla con la voce concitata: “abbiamo un problema grave con Sivori. Il capitano che ha sparato al ragazzo in via Acca Larentia. È in stato confusionale. Teme che, se si dovesse consegnare, lui e la sua famiglia rischieranno la vita. La possibilità di una rappresaglia è altissimo”. Cossiga fa una domanda secca: “il ragazzo che morto era armato?”. La risposta è agghiacciante: “Sì. Aveva una pistola che è stata fatta sparire dai suoi camerati. Sivori ha sparato per difendersi”. Non è vero. Sono pronti a giurarlo tutti quelli che, quella sera di follia, hanno assistito alla scena. Stefano non è mai stato un violento. Ma l’essere stato ammazzato come un cane da un carabiniere basta per montare contro di lui un castello di falsità.

Mentre Cossiga (lo ha raccontato lui stesso), fa partire Edoardo Sivori “per una bella vacanza, così da far calmare le acque”, i giornali cominciano a mettere in piedi una vera e propria campagna di demolizione della memoria di Recchioni. C’è chi avrà il coraggio di scrivere che, nella tasca della giacca di Stefano, sono stati ritrovati dei proiettili. Ma senza specificare che erano dei “calibro 9”, quelli in dotazione alle forze dell’ordine. Nessuno avrà mai il coraggio di ammettere che quei proiettili erano stati messi lì apposta per accusare Recchioni. Il Messaggero, ricostruendo la “carriera politica” di Stefano lo descriverà come uno tra i più “facinorosi” tra i militanti del Fronte della Gioventù, questo perché –qualche mese prima di essere ucciso- era stato fermato per accertamenti dopo qualsiasi rissa da strada. Perfino “Lotta Continua” e il “Manifesto” si schierano dalla parte dell’Arma, delle tanto odiate “guardie”. Ogni pretesto è buono per massacrare un fascista. Anche se è solo un ragazzo. Anche se è morto. 

Se la morte di Ciavatta e Bignozetti è stata il frutto dell’odio cieco ed indiscriminato dei compagni, quella di Stefano Recchioni è, se possibile, ancora più insensata, ancora più assurda, perché avvenuta per mano di un uomo dello Stato, di “tutore” dell’ordine.

C’è una canzone, scritta proprio per ricordare chi fosse veramente  Stefano: “Giovinezza hai segato le sbarre, un istante e poi t’hanno sparato, giovinezza che schifo di modo, per dirti che avevi sbagliato. Quei bastardi di carta stampata poi ci rimprovereranno vedrai, raccontando le storie di morte con il solito grugno che sai. Giovinezza, respira pulito, non si compra, non si può inventare, giovinezza ora è un vetro spaccato giovinezza una strada deserta.”

Il sangue di Stefano Recchioni si è mescolato, quella stessa sera del 7 gennaio 1978, a quello appena rappreso di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta.

Micol Paglia

Gli articoli di Micol Paglia sono ripresi da: http://www.ilgiornaleditalia.org

7 gennaio 2013: sul muro della sede è stato affisso uno striscione con su scritto: "Pdl, Fli, Udc, Fratelli d'Italia, La Destra. Ecco chi siete: ladri speculatori, truffatori, corrotti e corruttori, usurai, servi delle banche, amici dei mafiosi. Nemici del popolo!".

venerdì 4 gennaio 2013

Voci Contro Vento

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Storia e canzoni della musica alternativa 1965-1983

Per conoscere la storia della Destra degli anni ’70 è indispensabile conoscere anche la musica alternativa, le canzoni che scrivevano i giovani militanti, che venivano trasmesse dalle radio di destra e che venivano cantate prima o dopo i comizi o in manifestazioni varie, come i Campi Hobbit.

Questo libro + cd consente di conoscere la stagione della musica alternativa (e la giovane destra degli anni ’70) ripercorrendone la storia attraverso testimonianze (poche), interviste e articoli dell’epoca (molti) e soprattutto le canzoni (380 testi nel volume e 150 brani in formato mp3 nell’indispensabile cd allegato).
Una storia illustrata (più di 200 tra foto, copertine, manifesti e giornali) delle canzoni scritte da militanti del Fronte della Gioventù e del Fuan tra il 1974 e i primi anni Ottanta (più qualche predecessore negli anni Sessanta), per raccontare la cronaca e la vita quotidiana nella stagione degli “anni di piombo” e della “guerra civile” a bassa intensità, divisi fra l’impegno politico e i sentimenti di amore e di rabbia, i morti da piangere e le inchieste giudiziarie, le speranze e i sogni, l’anticomunismo e l’Europa Nazione.
Canzoni contro la logica di Yalta che aveva diviso il mondo tra Usa e Urss con il blocco comunista che dominava i Paesi dell’Est del Vecchio Continente dove libertà era una parola proibita e il Muro di Berlino il simbolo dell’oppressione.
Una storia che parte con “Berlin” di Leo Valeriano dell’autunno 1965 e finisce con la morte di Carlo Venturino degli Amici del Vento nel dicembre 1983 che assieme all’album “Terra di Thule” della Compagnia dell’Anello ha sancito la conclusione di una fase storico-musicale.

Canzoni di oltre 40 fra gruppi e cantautori, ma dieci sono le colonne portanti: Gruppo Padovano di Protesta Nazionale che ha poi dato vita alla Compagnia dell’Anello, Janus, Amici del Vento, Nuovo Canto Popolare, Roberto Scocco, Fabrizio Marzi, Zetapiemme, Atellana e Michele Di Fiò, l’unico ad aver tentato di inserirsi nel normale circuito discografico.

Canzoni diffuse dalle prime radio libere (quasi un centinaio quelle di destra) e protagoniste dei tre Campi Hobbit (il primo raduno nel 1977 ebbe un impatto “rivoluzionario”, sfatando tanti luoghi comuni sulla destra).

La musica alternativa non è un genere preciso, al suo interno si spazia dagli Janus, che facevano del buon rock progressive con incursioni nell’hard, curando molto la musica e meno i testi, agli Atellana che recuperavano le tradizioni popolari come il Canto dei Sanfedisti (“Sona, sona, sona carmagnola”) e il Canto delle Lavandaie del Vomero, canto napoletano del XIII secolo. Poi a parte la musica celtica e le atmosfere medievaleggianti della Compagnia dell’Anello (fantasy anche nel nome tratto da “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, un “cult” per la Destra anni ‘70), gli unici ancora in attività, per tutti gli altri (Lombroni, Scocco, Amici del Vento, Zetapiemme, Marzi, Di Fiò ecc.) i punti di riferimento sonori sono i cantautori tra ballate, un po’ di rock e brani in perfetto stile cabaret dove con l’ironia si mettevano alla berlina gli avversari, evidenziandone le contraddizioni.
Canzoni “contro vento” che giravano al di fuori dei canali commerciali e costituiscono realmente una cultura “underground”, tramandata oralmente o in modo artigianale e semiclandestino, utilizzando vecchie registrazioni, essendo da molto tempo esauriti i dischi e le cassette originali.

Un fenomeno minoritario che ha comunque interessato qualche milione di italiani.

Un patrimonio storico e culturale che non poteva andare perso (oggi conservato da Lorien, l’archivio storico della musica alternativa) e che bisogna conoscere per poter capire la destra di ieri con un occhio all’oggi e uno sguardo al domani.

fergen  – dicembre 2012 - ISBN 978-88-902503-9-2
Brossurato cm 17×24    -   496 pgg.  -   € 20,00
200 illustrazioni b/n

In allegato CD – 150 MP3

Dagli anni di porfido agli anni di piombo, i sogni, le speranze, e gli ideali di quella parte d’Italia che con disprezzo veniva etichettata fascista. La voglia di farsi conoscere, di uscire dal ghetto, di far sentire la propria voce anche attraverso la musica.

E proprio attraverso questa selezione di 150 canzoni conosciute, meno conosciute e forse alcune dimenticate si è realizzato questo cd allegato al libro. La compilazione comprende estratti dalle produzione ufficiali, concerti e registrazioni a partire dal “Canto degli Italiani” (78 giri Cetra del 1948) primo inno del Movimento Sociale Italiane fino alle ultime produzioni del 1983, con in aggiunta di 6 brani dedicati al periodo scritti negli anni successivi.
Molti brani sono conosciuti, alcuni sono stati ristampati su Cd, ma altri non sono mai stati ristampati su cd e altri ancora  non sono neanche mai stati incisi e provengono da registrazioni di concerti o amatoriali. L’intento del cd è quello di trasmettere le sensazioni, le emozioni che attraverso la musica i giovani di destra durante gli anni di piombo provavano cercando di lasciare, ove possibile, inalterato il “clima” delle registrazioni. Sui molti brani pubblicati ve ne sono quindi alcuni, provenienti da registrazioni o concerti conservati presso l’archivio Lorien, che non sono mai stati incisi e si sono persi nell’oblio del tempo lasciando qualche labile traccia nella memoria e che in questa sede si è voluto “recuperare”. Brani di gruppi noti e altri meno noti, Enzo Matarazzo, i Vento del Sud, da La Clessidra ai Messaggeri del Sole, da Andreina al Nuovo Gruppo Alternativo. Da “La nostra Canzone” di Lillo Gregori a “Bar 33” del Guppo Padovano a brani dei Campi Hobbit (“Dedicata a Sergio Ramelli, “A Mantakas”, “Io scelgo la morte”) fino a “Stella” di Michele Di Fiò.  

Per Ordini:

http://www.fergen.it   –    info@fergen.it

http://www.lorien.it   –   lorien@lorien.it

Da: http://www.cantiribelli.com

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