Vogliamo giustizia!

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Giustizia per i morti di Bologna

Ultimissime del giorno da ADNKRONOS

sabato 5 gennaio 2013

7 gennaio 1978: Noi non dimentichiamo

"a volte i fiori di ciliegio si librano nel vento della sera anche fra i casermoni delle città: Franco, Francesco, Stefano..."

presente2013

“Osserva dell’alba il primo baglior/che annuncia la fiamma del sol/ ciò che nasce puro più grande vivrà/ e vince l’oscurità”. Cantano questi versi i giovani che, a metà degli anni settanta, si iscrivono al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI. Cantano “il domani appartiene a noi” anche Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, due ragazzi come ce ne sono a decine in quegli anni, diventati martiri loro malgrado. L’avrebbero intonata anche quella sera del 7 gennaio, al concerto de “gli amici del vento”, gruppo alternativo milanese di destra (una vera rarità per l’epoca). Ma non ci sono mai arrivati, uccisi su un marciapiede del quartiere Appio Latino, quando l’aria fredda dell’inverno sa ancora di Natale.Francesco e Franco, insieme Maurizio Lupini, Vincenzo Signeri e Giuseppe D’Audino, stanno chiudendo la sede della sezione di via Acca Larentia. Un nome che, per più di duemila anni, ha riportato alla memoria esclusivamente la figura di una donna romana, la madre adottiva di Romolo e Remo. Un nome ricoperto da un alone di mistero, fra mito e leggenda. Questo fino a quel pomeriggio di gennaio del 1978. Sono le 18.23, minuto più, minuto meno. La scrupolosità di risparmiare un po’ ha spinto i cinque ragazzi a spegnere la luce prima ancora di sprangare la porta. Sul tavolino hanno lasciato una nota per avvisare gli altri camerati: “siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Letto con il senno di poi, quel biglietto, sembra uno di quei macabri scherzi che il destino fa, per lasciare una traccia di se in grado di raggelare il sangue di chi resta a piangere i morti. Franco e Francesco guardano dentro, spalle alla strada, gli altri stanno uscendo. Non sanno che sono i loro ultimi istanti di vita. Non sanno che i “compagni” hanno già scritto la loro condanna.  All’improvviso, sei o sette figure scure, con dei cappelli colorati calcati sugli occhi per nascondere alla bell’e meglio la faccia, compaiono in fondo alla strada. Nessuno capisce cosa stia per succedere. Poi, una raffica di spari. Uno dietro l’altro. Senza motivo. Un urlo. Bigonzetti che cade a terra. Ciavatta lo segue immediatamente dopo. A coprire quell’orrore c’è la notte scura che è calata su Roma.D’Audino, di quella serata di gennaio ricorda molto. Ha raccontato quell’incubo surreale a Luca Telese, in un’intervista per il libro Cuori Neri. “Qualcuno mi tira dentro (la sezione, ndr). Io tiro dentro qualcun altro. La porta, bisogna chiudere la porta! E altri spari. Passi fuori, nuove urla. Poi il buio della sezione che ci avvolge e il silenzio che cade improvviso su di noi”. Aggiunge anche un’altra cosa, Giuseppe. “Io ne sono certo: se prima di uscire non avessimo già spento la luce, per l’ossessione della bolletta, sicuramente oggi non sarei vivo”. E che cosa ha significato riaccendere quell’interruttore, lo può capire solo chi era lì, in quel momento. “Io non posso togliermi dagli occhi quell’immagine. Noi eravamo ancora per terra e da sotto la soglia della porta entrava un lago di sangue che si allargava lentamente, come se si stesse avvicinando a noi”. Una scena surreale. Da film.Giuseppe, Mario e Vincenzo (che è stato colpito di striscio) escono per provare a capire che cosa sia successo. Il sangue che hanno visto è quello di Franco. Ha il volto devastato dai proiettili. Irriconoscibile. E quel corpo dilaniato da una inspiegabile follia omicida sarà offerto alla mercè di tutti “grazie” alla foto di un giornalista de “L’Espresso”, che la pubblicherà una settimana dopo l’eccidio. A pochi passi da Franco, c’è Francesco. È ancora vivo, lui. Si sforza di parlare, altruista fino in fondo, eroe suo malgrado: “Non pensate a me. Pensate a Franco che sta messo peggio”. Non lo sa, non ha potuto rendersene conto, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Non lo sa, non se ne rende conto, o forse sì, ma sono anche i suoi ultimi respiri. Riesce a solo a sussurrare con un filo di voce: “aiuto, mi brucia tutto, aiuto”. Poi più niente. La corsa disperata in ospedale è inutile. Arriveranno entrambi cadaveri.Viene portato via da un’ambulanza anche Signeri. E la sua foto, sulla barella, mentre tenta di fare il saluto romano (trattenuto con violenza degli infermieri) prima di entrare in Pronto Soccorso, urlando di rabbia, è il simbolo di quelle ore drammatiche e assurde.L’azione verrà rivendicata poco dopo da una sigla semisconosciuta e dal nome che vuol dire tutto e niente: “Nuclei Armati per il contropotere territoriale”, i NACT. Di gruppi così, di questi tempi, ce ne sono a dozzine. Sparano e ammazzano senza pudore, senza pietà. Gli omicidi hanno uno scopo, però. Sono i cosiddetti “battesimi di sangue” che servono per fare il “salto di qualità” ed entrare nelle Brigate Rosse. È bene non dimenticare mai che, quel 1978, è l’anno che segnerà per sempre la storia d’Italia. È l’anno dell’assassinio di Aldo Moro e le BR sono il gruppo di riferimento fra i nuclei della sinistra extraparlamentare che hanno deciso di votarsi al terrorismo.I NACT, anche se poco conosciuti, sono molto ben organizzati. Hanno uomini (e donne). Hanno armi. Ad Acca Larentia vanno preparati, vogliono ammazzare e sanno come si fa. Alcuni dei 7 che compongono il commando sparano con pistole a canna corta calibro 9, che di solito ha in dotazione l’esercito. Ma i colpi che uccidono Franco e Francesco partono da un revolver calibro 38 e da una mitraglietta Skorpion. Un’arma micidiale, in grado di sparare più di venti colpi al secondo. La nota che rivendica i due omicidi, letta a 35 anni di distanza, fa ancora rabbrividire: “Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga”. “Le parole sono pietre”, scriveva Primo Levi ed è bene ripeterle, perché il tempo non ne cancelli il peso e non faccia scomparire il ricordo delle vittime.Sì, le vittime. Franco e Francesco. Due missini ragazzi, con la faccia pulita e la testa ancora china sui libri. Uno -di 19 anni- al primo anno di medicina a “La Sapienza”, l’altro -appena maggiorenne-  studente dell’istituto tecnico industriale “Tiziano”. La furia omicida dei NACT li ha strappati via alle famiglie senza nessun motivo. E, come spesso accade, c’è chi non riesce a sopportare di sopravvivere ad un figlio morto così. È il caso del padre di Ciavatta, portiere in un condominio di via Deruta, zona Tuscolano. Un uomo del popolo, cui i borghesi  (autonominatisi) difensori del proletariato hanno portato via il sangue del suo sangue. Non ha retto, il papà di Francesco, che pochi mesi dopo la strage di Acca Larentia si è suicidato bevendo una bottiglia di acido muriatico.E non è questa l’unica tragedia seguita alla folle azione dei NACT. Sì, perché la morte di Franco e Francesco si portata dietro una scia di sangue, finita solo un anno dopo quel maledetto 7 gennaio del 1978. La sera stessa degli omicidi di Ciavatta e Bigonzetti, sull’asfalto di via Acca Larentia cade un altro ragazzo. Stefano Recchioni. Questa volta non sono i “compagni” a sparare. È un carabiniere, Edoardo Sivori. Uno di quelli  chiamati per sedare la folla di camerati inferociti che si è radunata davanti alla sezione dell’Appio Latino. Poi, un’altra vittima. Un altro ragazzo. Un altro missino. Un anno dopo. Questa volta a Centocelle. Alberto Giaquinto viene ammazzato come un cane da un poliziotto in borghese, durante i tafferugli scoppiati mentre si sta ricordando quella tragica giornata di gennaio del ’78. Le loro storie, quelle di Stefano e Alberto, meritano di essere raccontate a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, nei prossimi giorni. Queste morti, per mano di uomini dello Stato, non devono essere confuse con l’azione punitiva messa in atto dai terroristi. Vicende diverse, unite da un unico, orribile, fil rouge.C’è una canzone che ricorda i fatti di Acca Larentia. Tutti, senza distinzione. S’intitola “generazione ‘78” e nel testo ci sono due frasi che racchiudono il nonsenso di quel freddo pomeriggio d’inverno: “Poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri, troppo sangue sparso sopra i marciapiedi e la tua generazione scagliò al vento le bandiere, gonfiò l'aria di vendetta senza lutto, né preghiere.”Questa è la storia di Franco e Francesco. Ed è solo l’inizio…

Micol Paglia

accalarentia

E non è ancora finita...

Quando sull'asfalto dell'Appio Latino non si è ancora rappreso il sangue di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, Eduardo Sivori (un ufficiale dell'Arma) spara in fronte al giovane parà di Colle Oppio, che morirà solo dopo due giorni di agonia

Sull’asfalto di Acca Larentia c’è ancora il sangue fresco di Francesco e Franco quando, davanti alla sezione, si raduna un gruppo di camerati. Tra di loro c’è anche Stefano Recchioni che, senza saperlo, cadrà sul selciato di quella via maledetta, ammazzato a sangue freddo dalla mano di un carabiniere, di un “tutore” dell’ordine. Oramai è notte. Il buio ed il gelo sono calati su quella folle giornata che, però, non ha ancora finito di mietere vittime.  Qualcuno posa a terra una bandiera nera con la fiamma del MSI ricamata sopra, proprio accanto al punto in cui è caduto Bigonzetti. La notizia dei ragazzi ammazzati come cani dai “compagni” si è diffusa in un baleno. In poche ore la piazzetta e la scalinata che erano state il teatro di quell’assurdo massacro, si riempie di una folla rabbiosa e attonita al tempo stesso.

Stefano, quel pomeriggio, mentre i NACT sparano senza alcuna pietà su Franco e Francesco, è in giro con una sua amica, Iolanda Tallarico. Frequentano tutti e due la storica sezione del Fronte della Gioventù di Colle Oppio (il MSI ha lì una delle sue primissime sedi), a due passi dal Colosseo. Vanno a fare volantinaggio con gli altri ragazzi. Parlano tra di loro di politica. Sono uniti. Legati, dalla militanza e non solo. Si vogliono bene.

È un bravo ragazzo, Stefano, primo di cinque figli (quattro maschi e una femmina). Si è diplomato da poco al liceo “Massimo”, a Roma. Ha 19 anni. Ne dovrebbe compiere venti dopo appena due settimane. Ma un destino crudele ha già deciso che lui deve essere la terza, innocente, vittima di quel 7 gennaio del 1978. Sua mamma è antifascista, ma lo ha cresciuto libero di pensarla come vuole. È bello, Stefano. Ha gli occhi azzurri, i capelli biondi, un sorriso che riempie il cuore e una faccia d’angelo. È sicuro di sé, educato, composto. Non importa che cosa scriveranno i giornali dopo la sua morte, per infangarne la memoria e salvare la faccia al suo assassino. Sì, perché la sua “colpa” sarà quella di essersi fatto ammazzare da un carabiniere. Finite le superiori ha deciso di fare una scelta diversa da molti suoi coetanei, ma coerente con ciò in cui crede: si è arruolato, nella Folgore. Vuole diventare un parà. “Pensa che bello, la prossima settimana farò il mio primo lancio”, lo dice a Iolanda, proprio quel pomeriggio d’inverno. Non lo sa, ma quelle parole resteranno soltanto un sogno stroncato sul nascere. 

Quando arriva la notizia della sparatoria ad Acca Larentia, i ragazzi Colle Oppio hanno appena finito di attaccare i manifesti. Rimangono tutti senza fiato. Decidono di correre all’Appio Latino. Iolanda non va con loro, è già tornata a casa, troppo giovane per andare in giro di notte. Ma Stefano no. Lui si precipita, uno di quelli a cui hanno sparato è suo amico. Davanti alla sezione c’è già parecchia gente quando arrivano. Sono quasi tutti in silenzio. Qualcuno urla, accusa i dirigenti del MSI: “Oramai siamo come pupazzi al tirassegno!”. “Non possiamo continuare a fare da bersaglio per i compagni”. Recchioni la pensa come loro. È molto critico nei confronti di Almirante e degli altri vertici del partito. In mezzo a tutta quella gente c’è anche uno strano personaggio. Si chiama Franco Anselmi. È uno che, in un modo o nell’altro, c’è sempre quando ammazzano un camerata. Porta con sé un feticcio, non se ne separa mai. È il passamontagna che il 28 febbraio del 1975 è stato macchiato dagli schizzi si sangue di Mikis Mantakas. Il giovane militante greco, di destra, ammazzato dai compagni a Piazza Risorgimento dopo la lettura della sentenza per il Rogo di Primavalle. Franco ha deciso che la morte di Ciavatta e Bigonzetti non può restare senza colpevoli. Così, in un macabro rituale compiuto fra sé e sé, intinge il passamontagna nel sangue di uno dei due missini caduti all’Appio Latino. La sua sete di vendetta lo porterà a schierarsi dalla parte sbagliata. Poco dopo l’eccidio dell’Appio Latino, entra nei NAR. Il 6 marzo del ’78, con altri terroristi neri, tenta l’assalto ad un’armeria in via Ramazzini, al quartiere Gianicolense. Il proprietario, terrorizzato, spara e uccide Anselmi.(N.B. In realtà il proprietario dell’armeria lo colpisce quando Franco sta andando via dopo la rapina)

Il tempo passa e la folla nella piazzetta di Acca Larentia aumenta a dismisura. Iniziano ad arrivare anche le forze dell’ordine. Carabinieri da una parte, Polizia dall’altra. In mezzo i camerati. La stradina dell’agguato a Franco e Francesco diventa una polveriera pronta per esplodere. Basterebbe un non nulla per far scoppiare gli scontri, anche se l’intento dei ragazzi non è certo quello fare un altro morto. Due in una giornata bastano e avanzano. Però c’è una strana elettricità nell’aria. La tensione è alle stelle. Ad un certo punto –secondo la versione di gran parte dei presenti- un operatore del TG1, che accompagna un giornalista, getta un mozzicone di sigaretta nella pozza di sangue, non ancora rappreso, di Francesco Ciavatta. Probabilmente il suo è un movimento distratto, non voluto. Per i camerati, però, quel gesto grida spregio, disprezzo per il loro dolore. È la goccia che fa traboccare il vaso. Scoppiano dei tafferugli. La polizia trascina via l’operatore che rischia di essere linciato dalla folla inferocita. La rabbia monta. Per calmare la folla, le forze dell’ordine iniziano a sparare lacrimogeni a tutto spiano. Ottengono la reazione opposta. È il caos. Comincia una sassaiola contro i carabinieri. In mezzo c’è pure Stefano. È disarmato. Ma questo non basta. Un agente, Edoardo Sivori, si fa prendere dal panico, non ci capisce più niente. Spara. Uno, due colpi. Ad altezza uomo. Poi cade a terra. Si rialza, rimette la pistola nella fondina. Uno dei due proiettili ha centrato Stefano in fronte.  Accanto a lui, mentre si accascia sull’asfalto di Acca Larentia, c’è Bruno di Luia, uno dei quadri del MSI. Non fa a tempo a dire “ma questi ci stanno a sparà!” che vede la fontanella di sangue sgorgare dalla testa di Recchioni. Si china su di lui. Respira ancora. Lo solleva di peso e lo porta di corsa al San Giovanni. Quando arriva al Pronto Soccorso è già in coma profondo. I medici lo attaccano alle macchine. La diagnosi è spietata: encefalogramma piatto. 

Non c’è speranza. Stefano muore il 9 gennaio. Dopo due giorni di agonia.

Nel frattempo, alla Camera, arriva una telefonata urgente per Francesco Cossiga che –all’epoca- è ancora Ministro dell’Interno. Dall’altra parte della cornetta c’è, agitatissimo, il Comandante Generale dell’Arma. Parla con la voce concitata: “abbiamo un problema grave con Sivori. Il capitano che ha sparato al ragazzo in via Acca Larentia. È in stato confusionale. Teme che, se si dovesse consegnare, lui e la sua famiglia rischieranno la vita. La possibilità di una rappresaglia è altissimo”. Cossiga fa una domanda secca: “il ragazzo che morto era armato?”. La risposta è agghiacciante: “Sì. Aveva una pistola che è stata fatta sparire dai suoi camerati. Sivori ha sparato per difendersi”. Non è vero. Sono pronti a giurarlo tutti quelli che, quella sera di follia, hanno assistito alla scena. Stefano non è mai stato un violento. Ma l’essere stato ammazzato come un cane da un carabiniere basta per montare contro di lui un castello di falsità.

Mentre Cossiga (lo ha raccontato lui stesso), fa partire Edoardo Sivori “per una bella vacanza, così da far calmare le acque”, i giornali cominciano a mettere in piedi una vera e propria campagna di demolizione della memoria di Recchioni. C’è chi avrà il coraggio di scrivere che, nella tasca della giacca di Stefano, sono stati ritrovati dei proiettili. Ma senza specificare che erano dei “calibro 9”, quelli in dotazione alle forze dell’ordine. Nessuno avrà mai il coraggio di ammettere che quei proiettili erano stati messi lì apposta per accusare Recchioni. Il Messaggero, ricostruendo la “carriera politica” di Stefano lo descriverà come uno tra i più “facinorosi” tra i militanti del Fronte della Gioventù, questo perché –qualche mese prima di essere ucciso- era stato fermato per accertamenti dopo qualsiasi rissa da strada. Perfino “Lotta Continua” e il “Manifesto” si schierano dalla parte dell’Arma, delle tanto odiate “guardie”. Ogni pretesto è buono per massacrare un fascista. Anche se è solo un ragazzo. Anche se è morto. 

Se la morte di Ciavatta e Bignozetti è stata il frutto dell’odio cieco ed indiscriminato dei compagni, quella di Stefano Recchioni è, se possibile, ancora più insensata, ancora più assurda, perché avvenuta per mano di un uomo dello Stato, di “tutore” dell’ordine.

C’è una canzone, scritta proprio per ricordare chi fosse veramente  Stefano: “Giovinezza hai segato le sbarre, un istante e poi t’hanno sparato, giovinezza che schifo di modo, per dirti che avevi sbagliato. Quei bastardi di carta stampata poi ci rimprovereranno vedrai, raccontando le storie di morte con il solito grugno che sai. Giovinezza, respira pulito, non si compra, non si può inventare, giovinezza ora è un vetro spaccato giovinezza una strada deserta.”

Il sangue di Stefano Recchioni si è mescolato, quella stessa sera del 7 gennaio 1978, a quello appena rappreso di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta.

Micol Paglia

Gli articoli di Micol Paglia sono ripresi da: http://www.ilgiornaleditalia.org

7 gennaio 2013: sul muro della sede è stato affisso uno striscione con su scritto: "Pdl, Fli, Udc, Fratelli d'Italia, La Destra. Ecco chi siete: ladri speculatori, truffatori, corrotti e corruttori, usurai, servi delle banche, amici dei mafiosi. Nemici del popolo!".

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