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lunedì 4 luglio 2011

Capitan Miki, giovane eroe dal tocco ottocentesco

Nelle sue avventure si vive la voglia di riscatto di un'intera generazione



Roberto Alfatti Appetiti
Sessant'anni, tanti ne sono passati dal 1° luglio del 1951, data in cui Capitan Miki fece il suo debutto in edicola, nella versione a strisce dell'editoriale Dardo. Tex si era fatto conoscere appena tre anni prima ma, a parte la comune ambientazione western, non avevano null'altro in comune. A cominciare dall'età. Se Tex è un uomo fatto, Miki è il primo di una nuova generazione di eroi adolescenti, nel cui sguardo acceso, intenso quanto ingenuo, brilla una concezione spirituale della vita.
Ha all'incirca sedici anni ed è (già) un ufficiale dei rangers del Nevada. Non beve - chiedere latte o limonata in un saloon, ne converrete, è decisamente più anticonformista che sbronzarsi - e non fuma. Mai un'imprecazione. Al più sbotta, se lo fanno innervosire, con «caspiterina» e «perbacco». Esclamazioni da ragazzo perbene in anni lontani, che oggi probabilmente farebbero sorridere anche i bambini meno smaliziati. Con la sua bella divisa da graduato potrebbe darsi arie da seduttore ma ha occhi solo per la figlia del colonnello Brown, il comandante di Fort Coulver, la stazione cui è assegnato. Quando la piccola Susy - che, con le sue lunghe trecce bionde, sembra una specie di Candy Candy ante litteram - si avvicina per baciarlo, rigorosamente sulle guance, lui diventa rosso come un tizzone. Malgrado il bianco e nero delle tavole. Viso da bravo ragazzo senza grilli per la testa e fisico non certo paragonabile a quelli, ben più possenti, degli eroi classici, Miki non può neanche contare su alcuno dei poteri dei supereroi americani che da qualche anno "bombardavano" le nostre edicole, ma solo sulla propria abilità con le pistole, una discreta conoscenza delle arti marziali e, per i suoi lunghi spostamenti nel deserto del Nevada, sul destriero nero cui ha dato il nome di Napoleone.
Per gli adolescenti degli anni Cinquanta immedesimarsi è sin troppo facile. Ogni albo arriva a vendere 500mila copie, numeri cui nei decenni a seguire solo pochissime testate a fumetti sono riuscite ad avvicinarsi. Paradossalmente proprio perché Capitan Miki non è un mito inarrivabile. Anche se vive Oltreoceano e per di più in un lontano Ottocento, è come se fosse un fratello maggiore, il cui candore non è diverso da quello di Romolo e Salvatore, i giovani personaggi popolani di Poveri ma belli, la pellicola girata nel 1956 da Dino Risi in una Roma ancora segnata dalle cicatrici del secondo conflitto mondiale e desiderosa di lasciarsi alle spalle definitivamente delusioni e cupezze per ritrovare un po' di sana leggerezza.
Miki, tuttavia, non è uno sfaccendato né aspira a diventare un vitellone nell'accezione flaiano-felliniana. Né mammone - lusso che non potrebbe permettersi, essendo orfano - né bamboccione, per dirla con Brunetta. Non è certo il primo eroe bambino del fumetto - già prima della guerra mondiale serie statunitensi come quelle di Cino e Franco e Terry e i pirati erano popolarissime nel nostro Paese - ma, proprio come i ragazzi italiani del nostro dopoguerra, Miki sembra aver acquisito una maggiore consapevole di sé, una dolente impellenza di felicità, l'entusiasmo di chi vuol ricostruire laddove erano rimaste solo macerie. Cresciuto rapidamente alla scuola della strada, affronta una "realtà" fatta di stenti e speranze e lo fa con la stessa determinazione dei piccoli protagonisti di pellicole neorealiste come Sciuscià e Ladri di biciclette. La sua vita, per quanto d'inchiostro, è altrettanto difficile: affidato a un tutore, rimane nuovamente solo quando questi viene assassinato da una banda di delinquenti. Eppure non si piange addosso, ha le sue idee su ciò che è bene e ciò che è male e sa con chi schierarsi: dalla parte della giustizia in un mondo, sia pure immaginario, in cui (a differenza del nostro) è ancora possibile distinguere i buoni dai cattivi. E, alla faccia di ogni precariato e disoccupazione giovanile, riesce persino a far carriera in tempi rapidissimi, appuntandosi sul petto i gradi da capitano e conquistando in breve migliaia di lettori ben oltre i confini nazionali. Onesto, leale, affidabile, incrollabilmente a difesa dei valori dell'onore e della libertà.
Così l'avevano pensato gli autori torinesi della EsseGesse (dalle iniziali dei loro cognomi): Pietro Sartoris, Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon, nati tutti e tre nel capoluogo piemontese tra il 1925 e il 1926 e scomparsi rispettivamente nel 1999, 1991 e 2000. Artisti a tutto tondo, a loro agio sia con la sceneggiatura che con il disegno, avevano iniziato separatamente per poi formare, insieme, una delle più prolifiche "ditte" del fumetto italiano - cui si aggiunsero anche altri disegnatori di qualità - dando alla luce personaggi come Olenwald il Nibelungo, Kinowa, Capitan Miki, Il grande Blek Macigno e il suo giovanissimo compagno d'avventure, Roddy Lassiter, dai più conosciuto come il Piccolo Trapper. Successi replicati nel decennio successivo con Il comandante Mark, la più longeva delle loro pubblicazioni, tanto da resistere in edicola sino alla fine degli anni Ottanta.
Se in queste ultime due serie gli autori "trasferiscono" la location delle storie negli anni della rivoluzione d'indipendenza americana - Blek combatte contro il colonialismo delle giubbe rosse inglesi alla testa dei trappers del Nord America e Mark è un comandante dei Lupi dell'Ontario, una formazione paramilitare che combatte anch'essa contro le truppe degli invasori di Re Giorgio III - l'epopea di Capitan Miki strizza l'occhio ai film western di John Ford. La ricetta è semplice, quasi elementare: storie avvincenti e senza pretese intellettuali, nel solco della tradizione romanzesca popolare e del feuilleton. Non mancano tutti quegli ingredienti che hanno fatto la fortuna di questo genere, alimentando l'immaginario di più generazioni di lettori, sogni e incubi: ci sono indiani in cerca di scalpi, sceriffi, pistoleri, cercatori d'oro, banditi senza scrupoli, assalti alle diligenze e, naturalmente, la natura selvaggia a fare da contorno. A mitigarne la drammaticità, la comicità è assicurata da eccellenti spalle comiche, comprimari di tutto rispetto come Salasso, medico radiato dall'albo - che, non a caso, impreca a colpi di «per tutte le ernie strozzate» e «per mille laparatomie» - e Doppio Rhum, il cui nome non lascia spazio a equivoci e ricorda da vicino il vecchietto alcolizzato di Ombre Rosse.
Certo, rileggere ora questi albi - negli anni Novanta il solo Dario Guzzon ne ripropose una breve produzione di storie inedite e da qualche anno la casa editrice If di Gianni Bono ha preso a ristamparne l'intera serie - ci dà la misura di quanto la nostra società sia irrimediabilmente cambiata. Perché se sessant'anni fa nella Coulwer City di Miki potevamo riconoscere i piccoli centri dell'Italia preindustriale e ancora contadina, diventa assai più difficile immaginare questo piccolo ufficiale dell'esercito statunitense alle prese con la criminalità organizzata o con le complesse dinamiche psicologiche degli efferati crimini di Cogne, Arce, Erba, Novi Ligure e Avetrana. Per quanto Capitan Miki sia stato in qualche misura l'eroe d'inchiostro che più di altri ha rappresentato la voglia di riscatto di un'intera generazione, è improbabile che possa ritagliarsi uno spazio anche per il futuro.
Una cosa però è certa: il suo nome - così come quello dei suoi "coetanei" già pensionati: Pedrito el Drito, Tiramolla, Akim, Piccolo Sceriffo e Geppo il diavolo buono - rimarrà scritto nella storia del fumetto italiano. Nel frattempo noi festeggiamolo ricordando sottovoce: «Per tutta la frontiera, per tutta la contrada, garrisce la bandiera dei Rangers del Nevada!»
Dal “Il Secolo d’Italia” del 02/07/2011

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