Vogliamo giustizia!

Vogliamo giustizia!
Giustizia per i morti di Bologna

Ultimissime del giorno da ADNKRONOS

lunedì 15 febbraio 2010

Vallanzasca

di Massimo Fini

L'11 gennaio comincerà la lavorazione del film

su Renato Vallanzasca prodotto dalla Twenty

Century Fox, con la regia di Michele Placido e

Kim Rossi Stuart nella parte di colui che fu "il

bel Renè". La circostanza mi offre lo spunto per

scrivere una "lettera aperta" al Presidente della

Repubblica per sollecitare una grazia che "il

bandito della Comasina" ha già chiesto qualche

anno fa ma che fu sdegnosamente respinta

dall'allora ministro della Giustizia Roberto

Castelli. Al Presidente della Repubblica Italiana

onorevole Giorgio Napolitano.


 

Signor Presidente,

mi permetto di rivolgermi a Lei con questa

lettera aperta per chiederLe di vagliare la

possibilità di concedere la grazia al cittadino

italiano Renato Vallanzasca, nato a Milano il

4/5/1950, attualmente detenuto nel carcere di

Opera. Il Vallanzasca è stato condannato a due

ergastoli e ad altri 90 anni di reclusione per una

serie di furti, di rapine, di sequestri di persona e

anche di omicidi di agenti di polizia consumati

però sempre a viso aperto in scontri a fuoco,

potendo egli stesso essere ucciso, e non in vili

agguati sotto casa mandando magari altri a fare il

lavoro sporco e pericoloso. Il Vallanzasca non

solo ha sempre lealmente ammesso le proprie

colpe, ma si è anche addossato in più occasioni

(rapine di Milano 2, di Pantigliate, di Seggiano,

di viale Corsica) le responsabilità di delitti per i

quali erano stati incriminati degli innocenti,

dando così un suo contributo, non marginale, alla

giustizia. Del pari non ha mai ceduto al

malvezzo, oggi così diffuso anche fra autorevoli

e autorevolissimi rappresentanti delle istituzioni,

di accusare polizia e Magistratura di

"complotto", non si è messo, com'è diventata

anch'essa deplorevole abitudine, a cercare prove

contro i suoi giudici, non ha mai lamentato

torture psicologiche e fisiche per il solo fatto di

essere in carcere, né si è messo a fare il pianto

greco alla scoperta che una cella non è un salotto.

Si è insomma sempre comportato con dignità,

dando a vedere di essere consapevole che aveva

un conto da pagare alla giustizia e alla

collettività. Eppure la carcerazione di Renato

Vallanzasca è stata durissima. Ha passato undici

anni in isolamento. Undici anni, signor

Presidente, quando ai detenuti di Tangentopoli o

similari sono bastati quattro o cinque giorni di

questo regime per gridare all'infamia, invocare

Amnesty International e per ricattare la

collettività minacciando di togliersi la vita. A

differenza di altri detenuti che hanno potuto fare

della loro cella una redazione di giornale o un set

televisivo, a Vallanzasca è stato negato anche il

computer (concesso, mi pare, solo un anno fa) e

poiché non ha santi in paradiso ha subito più

volte botte e pestaggi, mentre i medici che lo

avevano in cura venivano intimiditi perché nulla

trapelasse. Solo una volta, dopo vent'anni di

carcere di questo tipo, all'indomani di un

pestaggio particolarmente brutale, il Vallanzasca,

poiché nessuno si levava a difendere i suoi diritti,

ha scritto una lettera di protesta. Ma nemmeno in

questa occasione si è atteggiato a vittima e a un

giornalista che gli chiedeva se fosse stato

torturato ha risposto: «Beh, adesso non

esageriamo». Risposta che fa il paio con quella

data, dal famoso balconcino, il giorno della sua

prima cattura, alla canea sociologicizzante dei

giornalisti che, in clima immediatamente post

Sessantotto di giustificazionismi universali, gli

chiedevano se non si ritenesse una vittima della

società: «Non diciamo cazzate» (e già solo per

questo, ai miei occhi, meriterebbe di essere

liberato). Una lezione per allora, ma anche per

oggi in un'epoca di perdonismi, di "buonismo",

di indulti, di amnistie mascherate, di prescrizioni

altrettanto mascherate, dove nessuno accetta di

assumersi le proprie responsabilità - che sono

sempre altrove, nella famiglia, nella società, nel

"così fan tutti", nel «perché proprio io?» - come

dimostra anche la penosa vicenda di

Tangentopoli i cui protagonisti hanno fatto di

tutto per mischiare le carte trasformandosi in

martiri della libertà, in giudici dei loro giudici e

ad alcuni dei quali, condannati in via definitiva

per aver taglieggiato e concusso, vengono ora

intitolate vie, piazze e giardini; e quell'altra

incresciosa storia, possibile solo in Italia, di un

detenuto, condannato per l'assassinio di un

commissario di polizia, che ci fa ogni giorno la

morale dalle pagine dei più importanti giornali

nazionali. Come Le dicevo, signor Presidente, il

Vallanzasca ha una sua etica, sia pur malavitosa.

La ragazza Trapani la trattò con garbo e quando

le gazzette cominciarono a insinuare che fra lui e

la giovane c'era una "love story" replicò

seccamente: «Sono tutte balle inventate dai

giornalisti». Laddove, come Lei, signor

Presidente, che è uomo di mondo, ben sa, nella

società delle cosiddette persone perbene a

domande del genere s'è soliti rispondere con

sorrisetti d'intesa e frasi ambigue del tipo: «Non

fatemi parlare, sono un gentiluomo». Inoltre, pur

essendo nella posizione migliore per farlo, il

Vallanzasca si è sempre rifiutato di entrare nel

mercato della droga e a questo proposito ha

dichiarato: «Non giudico né chi si fa né chi

spaccia. Non sono cose che mi riguardano. Ma

con la droga non voglio avere nulla a che fare».

Infine, ed è la circostanza più importante, a

differenza di altri detenuti, per la concessione

della cui grazia, peraltro non richiesta

dall'interessato, si levano infinite voci ben più

autorevoli della mia, e che hanno scontato una

parte minima della loro pena, Renato Vallanzasca

è in galera da più di trent'anni. Ha peccato molto,

è vero, ma mi pare di poter dire che ha espiato

anche molto, dimostrando oltretutto, a differenza

di altri, di riconoscere la potestà dello Stato e il

suo diritto a giudicarlo e punirlo. È un bandito

d'altri tempi, di stampo ottocentesco, quando la

malavita aveva regole, dignità e codici d'onore ed

era lo specchio rovesciato e malato di una società

liberale dove regole e dignità e onore avevano il

primo posto. La malavita di oggi invece, si tratti

di mafiosi, di camorristi, di criminalità

organizzata, ma anche di raider della finanza, di

tangentisti, di concussori, di corruttori (magari

anche di testimoni in giudizio), di "colletti

bianchi" corrotti, di "ladri in guanti gialli", non

ha né regole né dignità né onore. E una malavita

senza dignità né onore non può che essere lo

specchio e il prodotto di una società senza

dignità e senza onore. Tanto è vero che il confine

fra malavita e ciò che non lo è si è venuto

facendo in questi anni sempre più indefinibile e

molti di coloro che oggi sono sotto processo

hanno un piede in Tribunale e l'altro

nell'imprenditoria, nel mondo finanziario, nella

politica, in Parlamento, se non addirittura nel

governo e nei suoi vertici. E non c'è criminale

più spregevole di quello che delinque sotto il

manto della rispettabilità e proteggendosi con

essa. Non c'è immoralità più grande di quella di

chi pretende rispettabilità sapendo di non

meritarla. Renato Vallanzasca, al contrario, è

sempre stato un delinquente a viso aperto. Oso

dire, signor Presidente, che in questo

immondezzaio che è diventata la vita pubblica e

privata del nostro Paese, fa la parte dell'uomo

morale, sia pur a modo suo. È un bandito onesto

in una società dove troppo spesso gli onesti sono

dei banditi.

Nessun commento:

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...