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domenica 7 luglio 2013

"Tutti i fascisti come Falvella con un coltello nelle budella"

Salerno: 7 luglio 1972, sul lungo mare scoppia una rissa che finisce in tragedia

giovanni_marini

La storia dimenticata di Carlo, il missino buono ammazzato a coltellate da Giovanni Marini, l'anarchico diventato “il poeta dei folli e dei giusti” – A difendere l’immagine dell’assassino ci pensò il Soccorso Rosso di Franca Rame e Dario Fo.

Non c’è una canzone che ricordi la storia di Carlo Falvella. Non ci sono i versi di Massimo Morsello, non ci sono le note rabbiose dei 270bis a raccontare la morte insensata di un ragazzo senza colpe. Caduto, da martire, senza aver compiuto neppure vent’anni. Si dedicano rime al suo assassino, in compenso. Un motivo in più per riportare alla memoria cosa accadde il 7 luglio di 41 anni fa.

Salerno, 1972. La cappa di piombo che pesa sull’Italia di quegli anni, è scesa da poco. In quella calda estate non si è avuto che l’assaggio di ciò che avverrà nel decennio successivo. I disordini all’università di Roma (e non solo), la bomba a Piazza Fontana, la tragica morte dell’anarchico Pinelli caduto giù dalla finestra della Questura di Milano, l’omicidio di Ugo Venturini a Genova. Ed è solo l’inizio. Il 17 maggio di quell’anno, Lotta Continua  uccide a colpi di pistola, sotto la sua abitazione, il commissario Luigi Calabresi. È un’esecuzione in piena regola. Ad ordinarla è stato Adriano Sofri, dirigente di L.C. e direttore del quotidiano che porta lo stesso nome dell’organizzazione terroristica.

Sembra così lontana Milano per chi vive in una bella e soleggiata città della Campania. Quell’anno, ad “un disco per l’estate” trionfa Gianni Nazzaro con Quanto è bella lei. Ma, da nord a sud, l’unica canzone che spopola è Io vagabondo (che non sono altro), dei Nomadi.  Forse la canticchia anche Carlo, mentre passeggia sul lungomare di Salerno. Vive lì, con la sua famiglia. I Falvella hanno 6 figli: 5 maschi e una femmina. Papà Michele è un uomo colto e tranquillo. Profondamente cattolico, liberale e fortemente conservatore. Fa l’insegnante alle superiori. Appassionatissimo di enigmistica, così come di letteratura classica. Quando può rilassarsi un po’ prende la sua copia dell’Eneide e si diletta a tradurla. È un uomo riservato Michele. Non parla molto, ma ai suoi figli insegna a crescere con sani principi e pochi grilli per la testa. Tiene che i suoi ragazzi si facciano una cultura e Carlo non lo delude. 

In quell’estate del ’72 ha da poco finito il primo anno all’Università. Studia Filosofia. La scelta non è stata casuale. Il ragazzo è affetto da una gravissima forma di miopia, rischia di rimanere cieco prima dei trent’anni. Gli mancano 13 diottrie all’occhio destro. Per tre volte è stato operato di cataratta. Carlo è consapevole che, eccezion fatta per un miracolo, il suo destino è segnato. Tanto da confidarsi con suo padre, dicendo: “ho scelto Filosofia perché potrei comunque continuare ad insegnarla senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Le sue parole, queste speranze per il futuro, lette con il senno di poi, fanno venire i brividi.

Il suo problema non gli impedisce di fare politica. È vicepresidente del Fronte Universitario d’Azione Nazionale, il Fuan, l’organizzazione degli studenti del Msi. Non è né un violento, né un attaccabrighe. Carlo è un bravo ragazzo, che milita solo perché ha una grande passione che gli gonfia il cuore.  Gliel’ha trasmessa sua madre. Lei è di destra, come se non più di suo figlio. Va in giro per Salerno con i manifesti del Msi attaccati al cofano e agli sportelli della sua macchina. Questo suo credo non lo trasmette solo a Carlo, ma anche ad un altro dei suoi figli, Filippo (che diventerà anche consigliere del Movimento Sociale, a Salerno, per due consiliature). Quando i due ragazzi comunicano a papà Michele che si vogliono iscrivere al Fuan la reazione non è proprio delle più entusiaste: “io non ho nulla in contrario. Ma sappiate che la politica è una statua di fango, e voi vi ci dovrete sporcare le mani”.

È vero ciò che dice il saggio signor Falvella. A fare politica, in quegli anni, si rischia di sporcarsi le mani. Non di fango, ma di sangue. Il sangue di Carlo.

È una giornata calda il 7 luglio del ’72. Sono le 19, minuto più minuto meno. Falvella sta passeggiando in via Velia, a due passi dal lungomare. È insieme ad un suo amico, si chiama Giovanni Alfinito. Sarà lui a raccontare come sono andate le cose: “stavamo per rincasare. Ma all’altezza di uno spiazzo che si trova sulla destra abbiamo notato il gruppo avversario al quale si era aggiunto anche un terzo che conoscevamo già di vista, di tendenza anarchica o di estrema sinistra”. Si chiama Giovanni Marini ed è, effettivamente, un anarchico. “Nell’incrociarci –prosegue Alfinito- c’è stato uno scambio di sguardi insistente (…). Eravamo distanti dieci-quindici metri quando il terzo, il più alto dei tre, il capellone, il terzo dei feriti che voi dite chiamarsi Mastrogiovanni, si è portato verso di noi”. A quel punto scoppia una rissa. Così, senza nessun buon motivo. Marini si allontana, poi torna indietro. Nella mano destra ha un coltello. Dice una frase che suona un po’ come “adesso mi sono scocciato”. E affonda la lama. Giovanni riesce a schivarla. In parte, almeno. È stato colpito all’addome, ma non è grave. Carlo a quel punto si avventa su Marini per difendere l’amico ferito. L’anarchico non ha alcuna pietà. Affonda una coltellata dopo l’altra. Falvella, però, è un ragazzo coraggioso. Continua a lottare e riesce a disarmare il suo assassino.

Marini è nel panico, nella rissa ha perfino accoltellato uno dei suoi amici. Proprio sotto al ginocchio. Mentre Alfinito urla “aiuto! Polizia! Aiutateci!”, gli aggressori se la danno a gambe. Il ragazzo è solo e non si accorge che l’amico è a terra, in un lago di sangue. Carlo con un filo di voce riesce a dire soltanto 4 parole: “Giovanni, mi hanno ferito…”

Falvella è stato colpito all’aorta. L’emorragia è impossibile da arrestare. Ha solo il tempo di incrociare lo sguardo di Vincenzo Fasano, suo carissimo amico mentre è sulla barella e dirgli: “Stai tranquillo, è tutto a posto. Non è nulla di grave”. Sono le sue ultime parole. Carlo muore dissanguato poco dopo il suo arrivo in ospedale.  

La tragica perdita di un figlio non basta a togliere la dignità a mamma Falvella: “hanno ucciso lui, non hanno ucciso la sua idea” dirà la donna il giorno dei funerali. Lei che sta seppellendo la carne della sua carne, dà la forza agli amici di Carlo, schiantati dal dolore. Alle esequie non parteciperà nessun esponente politico, eccezion fatta per gli iscritti al Msi. Un partito che resta solo, ad assistere alla morte ingiustificata e senza senso di uno dei suoi.

Ma per il dolore, negli anni di piombo, non sembra esserci spazio. Le lacrime devono lasciare sempre il posto alla rabbia. Sì, perché come accadrà per il rogo di Primavalle, la sinistra extraparlamentare mette in piedi la macchina del fango che deve travolgere la memoria di chi è caduto. Per difendere chi ha ucciso, si distorce la verità.

Il compito di proteggere l’immagine di Giovanni Marini, che nel frattempo è stato arrestato ed è in attesa di giudizio, è affidato al Soccorso Rosso militante e a Lotta Continua. Ma non solo. Franca Rame si preoccupa addirittura di scrivere una lettera a Giovanni Leone, allora presidente della Repubblica. “Fanno uscire i fascisti, quelli sì, e li fanno rientrare nel paese anche se hanno organizzato un colpo di Stato. Se sono rossi no. Ecco un esempio: Giovanni Marini. Detenuto da diciotto mesi per essersi difeso da un aggressione fascista, e aver colpito per non essere ammazzato”. Si erige a giudice e giuria, la signora Fo. E si preoccupa di umanizzare il carnefice : “è una persona generosa, lo dicono tutti. Tra l’altro è molto colto, e non di una cultura libresca o di erudito”.  Ma è un assassino. Prima di ogni altra cosa.

Mentre la sinistra extraparlamentare conia un nuovo slogan, “tutti i fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella”, Giovanni Marini viene condannato a 9 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale aggravato e concorso in rissa. Mentre è in galera, si mette a scrivere poesie. Vince addirittura il premio Viareggio. Comincia ad essere soprannominato “il poeta dei folli e dei giusti” (sic!). Riceve complimenti perfino da Alberto Moravia.

Di Carlo Falvella sembrano essersi dimenticati tutti. Tutti, ad eccezion fatta dei suoi amici, che continuano a cantare “oggi è morto un camerata, ne rinascono altri cento”.

È emblematica la storia del missino di Salerno. Perché è lo specchio dell’Italia degli anni di piombo. Più interessata a riabilitare l’assassino di un ragazzo di nemmeno vent’anni, che a lasciarlo marcire nella fogna in cui lui stesso si è cacciato. È lo specchio di un’Italia che dimentica i suoi figli, morti ammazzati da innocenti e senza una ragione, per salvare chi ha le mani sporche del loro sangue.

Micol Paglia

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