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mercoledì 13 marzo 2013

Sergio Ramelli, morire per un tema, a colpi di chiave inglese "Hazet 36. Fascista dove sei?"

Nella Milano degli anni piombo si consuma uno dei delitti piú assurdi di quel periodo. Sergio milita nel MSI. Viene ammazzato senza pietá da un gruppo di "compagni" di Avanguardia Operaia. La sua colpa è quella di aver criticato le Brigate Rosse in un compito in classe. Dopo l'agguato subito sotto casa, la sua agonia dura per 47 giorni. Quando muore, Ramelli ha solo 19 anni.

ramelli

È bella Milano in Primavera. A marzo, per esempio, quando il grigio dell’inverno lascia lo spazio ad un pallido sole che scalda la città. È bella Milano. Anche in quel marzo della metà degli anni ’70. Perché nonostante scontri, cariche, manifestazioni, cortei, omicidi, c’è ancora un briciolo di normalità. Almeno questo deve pensare Sergio Ramelli, vent’anni ancora da compiere, che in quell’ultima stagione della sua vita, ha una voglia matta di dare libero sfogo a tutte le sue passioni. Adora Adriano Celentano. Le sue canzoni, a detta di sua mamma Anita, le canta a squarciagola per tutta casa. Ma non basta. Gli piace anche il calcio, tifa l’Inter, proprio come Celentano. Quei colori nerazzurri lo hanno conquistato fin da quando è piccolo. Ma non è un fanatico. È andato allo stadio solo qualche volta. La sua fede se la porta dentro. Come molte altre cose. È riservato Sergio. Riservatissimo. Non dice mai una parola di troppo. Gli piace cavarsela da solo, senza dover dare preoccupazioni ai suoi genitori. Che, infatti, non ne hanno. Sì perché i Ramelli hanno cresciuto un figlio come ce ne sono pochi. È diligente, studioso, mette passione in tutto ciò che fa. Frequenta l’istituto tecnico Molinari. A Milano. La sua classe è la V J. “Aveva scelto quella scuola perché amava la matematica e la chimica. Era bravo a scuola e qualche volta a casa avevamo anche parlato del suo futuro: avrebbe voluto iscriversi proprio alla facoltà di Chimica. Aveva sempre avuto dei bei voti, anzi, a dire il vero, qualche volta gli avevano anche annullato dei compiti di matematica perché li aveva passati ai compagni. Anche questo nessuno lo ha mai detto. Sergio era generoso, allegro, aveva degli ottimi rapporti con i compagni di classe…” Lo ricorda così suo figlio, Anita Ramelli, nell’unica intervista rilasciata in anni e anni. Quella da cui Guido Giraudo, insieme ad AndreaArbizzoni, Giovanni Butti, Francesco Grillo e Paolo Severgnini, ha preso ispirazione per il suo Sergio Ramelli: una storia che fa ancora paura.

Ha una ragazza, Sergio. Si chiama Flavia. Si vogliono bene. Si amano, come ci si ama a vent’anni, completamente. Non vanno a scuola insieme. Flavia, figlia di un preside, ha dovuto cambiare istituto perché ha avuto non pochi problemi con i ragazzi di sinistra. Ma questo, per Sergio e Flavia, non è un problema.

Porta i capelli lunghi Sergio. Non solo perché in quegli anni va di moda così. A lui quella chioma scura, che gli arriva praticamente alle spalle, piace proprio. Cosa importa se ogni tanto lo scambiano per uno di sinistra?

I suoi amici, quelli che lo conoscono veramente, sanno benissimo lui come la pensa. È iscritto al Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del MSI). È di destra Sergio Ramelli. Un ragazzo di destra che ama il calcio, la musica, lo studio. Maquando un gruppo di esponenti di Avanguardia Operaia lo massacra a colpi di chiave inglese, “regalandogli” un’agonia di 47 giorni, prima di vederlo morire in un letto d’ospedale, Sergio non è nient’altro che un “fascista” da eliminare. Anche se non si sa in che modo, a nemmeno vent’anni, si possa rappresentare un nemico che va annientato. Senza pietà.

Ma ciò che porterà alla morte di Sergio Ramelli è un lungo periodo di persecuzione, minacce, soprusi. E tutto per un tema. Sì, si può dire che quel ragazzo studioso, con la passione per Celentano e per la matematica, sia stato ucciso per le frasi scritte in un compito in classe.

Comincia tutto all’inizio del 1975. È gennaio. Il professore di lettere della V J, Giorgio Melitton, è un simpatizzante della sinistra extraparlamentare. Nulla di sorprendente. Anzi, si potrebbe dire che in quegli anni (e non solo), essere docente e “compagno”, è la regola. Melitton, però, non è un esaltato come molti dei suoi colleghi e, probabilmente, quando assegna quel tema in cui chiede ai suoi alunni di parlare di attualità, non vuole fomentare l’odio fra i ragazzi. Forse, ha solo la curiosità di sapere come la pensano. Non può immaginare che, in pratica, sta firmando la condanna a morte di un ragazzino di 19 anni. Sergio, ovviamente, sceglie quella traccia. Vuole parlare delle Brigate Rosse. Racconta di come il duplice omicidio di un anno prima deimissini di Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, sia stato l’inizio della spirale di odio e terrore in cui i terroristi di sinistra stanno trascinando l’Italia. È la prima volta in cui le BR uccidono. E uccidono due militanti di destra. È la logica del sangue e della destabilizzazione che porterà, nell’apice della follia, all’uccisione di Aldo Moro. Ma questo Sergio non lo può sapere. Però ha compreso perfettamente la pericolosità di quell’organizzazione, armata e violenta, che con i suoi omicidi riscuote così tanto successo, perfino fra i suoi compagni di scuola.Non se lo può immaginare, Sergio, che quelle frasi saranno la sua condanna. Sì, perché quel tema, il professor Melitton, non lo correggerà mai. Al termine del compito, infatti, uno dei compagni di classe di Ramelli viene incaricato di raccogliere tutti gli elaborati della V J. Quando è nel corridoio, però, un gruppetto di rappresentanti di Avanguardia Operaia, il collettivo più “forte” del Molinari, strappa di mano al ragazzo tutti i temi. I “compagni”, i “rossi”, dentro l’Istituto si possono permettere di fare tutto quello che vogliono. Si mettono a leggere e controllare tutti i compiti. Spulciano ogni frase. Un paio di ore più tardi, i due fogli protocollo scritti da Sergio Ramelli vengono esposti nella bacheca all’entrata della scuola. Tutte le frasi, o quasi, sono sottolineate. E, sopra, una scritta rossa impressa a caratteri di fuoco: “ecco il tema di un fascista”.

Da questo momento in poi Sergio diventa un bersaglio con il quale giocare al tiro a segno. E, grazie ad un gruppo di docenti disinteressati e omertosi, la persecuzione non è poi così difficile. Gli insegnati assistono passivamente ad una serie di episodi raccapriccianti. Durante una lezione, per esempio, Sergio Ramelli viene prelevato di forza dal suo banco, portato nel corridoio. Sputi, insulti. Gli urlano in faccia “sei un fascista! Vergognati!”. Nessuno interviene. Nessuno interrompe. “Ramelli, con te abbiamo appena iniziato”. È un avvertimento. E, infatti, a quell’episodio ne seguono molti altri. Una mattina di gennaio, lo aspettano sotto casa. Il gruppo è composto da ragazzi che sono tutti più grandi di lui. Sergio, molti di loro neppure li conosce. Non vanno al Molinari, ma lo obbligano comunque a riverniciare i muri dell’Istituto. Lo “sbiancamento”, lo chiamano. In realtà è solo l’ennesima umiliazione. Ottanta “compagni” (questo racconteranno alcuni testimoni ai magistrati durante le indagini per la morte di Ramelli), contro un ragazzino di neppure vent’anni. Ancora una volta, tutti vedono, nessuno interviene.

Per non far preoccupare sua madre, Sergio non le racconta nulla. Tiene i genitori all’oscuro delle vessazioni continue cui lo sottopongono i membri del collettivo a scuola. Eppure, le minacce cominciano a non limitarsi solamente alle ore in cui Sergio sta a lezione. Poco prima dell’aggressione, cominciano le telefonate anonime a casa. Dall’altra parte della cornetta nessuno parla, si sente soltanto l’inequivocabile motivetto di Bandiera Rossa. Poi compaiono le scritte sotto casa: “Ramelli, fascista, sei il primo della lista”. Tutti leggono. Ma nessuno pensa di dover proteggere quel ragazzo letteralmente perseguitato dagli autonomi che dettano legge nella sua scuola. Ma, d’altra parte, Milano è sempre la stessa città che ha assistito inerme alla morte annunciata di Luigi Calabresi. Condannato, senza appello, da Lotta Continua, perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.

Il 13 marzo del 1975 cade di giovedì. Quella mattina Sergio va a scuola come tutti i giorni. Segue le lezioni. Aspetta come al solito il suono della campanella. È l’ora di pranzo quando riprende il suo vecchio motorino (usato), quello che gli hanno regalato mamma e papà, per dimostrargli che si fidano di lui, perché sanno che è un ragazzo responsabile e diligente. Questo non basterà a salvargli la vita. Sì, perché qualche giorno prima, Roberto Grassi, uno dei capibastone di Avanguardia Operaia ha deciso che Ramelli deve essere l’obiettivo della loro prima aggressione. E dietro l’agguato, c’è un disegno ben preciso, un’idea molto chiara. Nonché la consapevolezza di una probabile impunità.

C’è uno slogan della sinistra extraparlamentare di quegli anni che, a rileggerlo oggi, fa venire i brividi: “Hazet 36. Fascista dove sei?” La Hazet 36 è una chiave inglese. È lunga quarantacinque centimetri. Pesa quasi tre chili e mezzo. Un colpo inferto con quella è letale come il proiettile sparato da una pistola. Ma laHazet è molto più facile da trovare. Basta andare in un ferramenta.Avanguardia Operaia usa le chiavi inglesi come strumento per il servizio d’ordine durante le manifestazioni. Ma vanno benissimo anche per frantumare il cranio ad un ragazzino di 19 anni che torna da scuola.

Quando Sergio parcheggia il suo “Ciao” sotto casa, lo aggrediscono in quattro. Uno resta a fare il palo. Lo colpiscono a ripetizione. Con una violenza inaudita. Senza pietà, come belve feroci e assetate di vendetta. È il loro battesimo del sangue.

L’azione dura pochi minuti. Sergio rimane a terra, in un lago di sangue. È ancora vivo. Per altri quarantasette giorni combatterà con la morte, in un letto dell’ospedale Maggiore di Milano. Poi, dopo un’agonia senza paragoni, anche il suo cuore si arrende.

I responsabili della sua morte sono stati individuati. Il processo farsa che è seguito alla barbara aggressione contro Ramelli, merita di essere raccontata a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, in occasione dell’anniversario della morte di Sergio, il 29 aprile.

“La morte di un tempo aveva la falce, la morte di oggi ha pure il martello, lasciò la sua firma su quel muro di calce, proprio di fronte al tuo cancello.”

In realtà, per Sergio Ramelli, la morte ha nelle mani una chiave inglese e il volto di un drappello ragazzi, poco più grandi di lui. Che lo massacrano senza pietà. Vigliacchi fino alla fine. Forti del fatto che spaccare la testa a un “fascista”, non è un reato. Nemmeno se è un ragazzo di 19 anni.

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Micol Paglia

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