Vogliamo giustizia!

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Giustizia per i morti di Bologna

Ultimissime del giorno da ADNKRONOS

domenica 20 giugno 2010

Per le giovani generazioni, per non dimenticare



Durante una ricerca sulla vita del Senatore Paolo Emilio Taviani, eminente comandante partigiano e fra i fondatori della Democrazia Cristiana, ci siamo imbattuti in numerose rico-struzioni biografiche, che possono essere esemplificate dalla seguente scheda, per la quale ringraziamo sentitamente l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia: 
Paolo Emilio Taviani. Nato a Genova il 6 novembre 1912. Nell'università del capoluogo ligure studiò e poi insegnò dalla cattedra di storia delle dottrine economiche (aveva altre tre lauree, oltre a quella di economia: Legge, Scienze sociali e Filosofia). Dal 1931 al 1934 era stato presidente della Fuci, l'organizzazione degli universitari cattolici. Per le sue posi-zioni antifasciste, nel '43 fu posto al confino di polizia. Nell'estate di quell'anno, Taviani organizzò a Genova la fusione tra i Cristiano Sociali e i superstiti del Partito Popolare. Fu tra i fondatori del Cnl di Genova, durante l'occupazione tedesca, e rappresentò le formazioni cattoliche nel-la resistenza. Taviani fu uno dei tre dirigenti dell'insurrezione della città che costrinse alla resa un intero corpo d'armata nazista, prima dell'arrivo degli alleati. Il racconto di quelle giornate dell'aprile del '45 è contenuto nel suo libro Breve storia dell'insurrezione di Genova. Alla fine della guerra Taviani fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana. Fu eletto alla Costituente e da allora è sempre stato in Parlamento. Della Dc Ta-viani è stato prima vice segretario (dal '46 al '48) e poi segretario nazio-nale (dal '48 al '50). Dal giugno del 1950 rappresentò l'Italia ai lavori per la stipula del Piano Schuman; al governo arrivò nel luglio del 1951, come diretto collaboratore di Alcide De Gasperi (fu nominato suo sotto-segretario agli Esteri): per cinque anni, dal '53 al '58, ebbe la responsabi-lità continua del dicastero della Difesa. Fu poi ministro delle Finanze (dal '59 al '60), del Tesoro (dal '60 al '62), dell'Interno (dal '62 al '68), del Mezzogiorno (dal '68 al '72), del Bilancio (dal '72 al '73) e, infine, di nuovo dell'Interno (dal '73 al '74). Taviani ha vissuto dal centro della stanza dei bottoni tutta la storia dell'Italia dei governi centristi, prima, e di centrosinistra, poi. Nel partito della Dc, Taviani, di formazione mode-rata, si collocò sempre in un ruolo centrale, di mediazione. Quanto la Dc affrontò la svolta del centrosinistra, uscì dal gruppo doroteo e promosse la componente dei cosiddetti "pontieri", che aveva l'obiettivo di gettare un ponte fra il centro del partito e le sue componenti di sinistra. I suoi anni al ministero dell'Interno (dal '62 al '68), lo trovarono a dover fron-teggiare le emergenze dell'ordine pubblico legate all'esplodere della con-testazione. L'istituzione delle Regioni, nel '68, fu uno dei suoi successi politici. Finita l'esperienza ministeriale, Taviani fu mandato dal partito al Senato nel 1976. Vice presidente dell'Assemblea, nel '91 fu nominato da Cossiga senatore a vita. L'ultima apparizione pubblica di Taviani risale al 30 aprile 2001, quando presiedette la prima seduta dell'Assemblea di Palazzo Madama della nuova legislatura.

 
Nel leggere con grande interesse questa scheda, non abbiamo potuto fare a meno di notare come, pur nella sua brevità, gli estensori della suddetta avessero mirabilmente ricostruito passo dopo passo la brillante carriera di Taviani; anche se ci pare omettano i fruttuosi suoi contributi agli studi storici dell'età moderna; in particolare ci riferiamo alle sue basilari fatiche sulla vita di Cristoforo Colombo. Tuttavia, abbiamo riscontrato una mancanza maggiormente rilevante, ossia un vuoto, un gap, nella sua biografia di politico e studioso, un periodo, piuttosto lungo, dove non è data alcuna notizia sulla sua attività: ci riferiamo al periodo tra il 1934, anno in cui Taviani è segnalato "presidente della Fuci, l'organizzazione degli universitari cattolici" e il 1943, dove "per le sue posizioni antifasciste" è posto "al confino di polizia"; fatto che non sorprenderebbe, vista la sua luminosa figura di combattente partigiano antifascista, tratteggiata nelle righe della preziosa scheda biografica citata. Rimaneva quindi il problema di quei nove anni, dal 1934 al 1943; ben nove anni della vita di una persona così importante per il destino dell'Italia Repubblicana, nove anni di capitale importanza della Bildung di uno dei nostri cari, amati, padri della Patria, della nostra Repubblica nata dalla Resistenza, con la "R" rigorosamente maiuscola. Ci punse pertanto vaghezza di approfondire l'argomento, ma diverse altre fonti non ci diedero lumi sulla que-stione. Non vi nasconderò che iniziammo, se non a sprofondare nell'angoscia, quantomeno a disperare di giungere a dipanare questo rovello che ci attanagliava. Ma il nostro struggimento, per fortuna, ebbe inaspettatamente sollievo, poiché, qualche tempo dopo, a casa di una nostra cara zia, la quale, parafrasando Longanesi, ci salvò dal nostro cruccio, capitò tra le nostre le mani un curioso libretto, dalla buffa copertina, ritraente una balda figura in orbace, prevedibilmente fregiata con un fascio littorio sul petto, e tuttavia inconsuetamente bardata anche di un vistoso fazzoletto rosso al collo, con tanto di falce e martello, e, cosa ancor più strana, con calcato sulla testa un copricapo da prete, ornato dalla slanciata croce rossa in campo bianco, simbolo della Democrazia Cristiana. Il libro era "Italia fascista in piedi!", di Nino Tripodi, editori Borghese e Ciarrapico, precisamente nella veste della sesta edizione del gennaio 1975. In questo libretto, fortunata circostanza, era citato anche l'oggetto della nostra ricerca, proprio nella quarta di copertina, che qui di seguito riportiamo:

 
Questo libro é la storia dei Littoriali, scritta da un Littore. Ma é, soprattutto, la storia di tutti coloro che ai Littoriali parteciparono, con spirito fascistico, durante il fascismo; per poi rinnegarli con spirito antifascistico, durante l'antifascismo. É, quindi, una specie di "Dizionario delle banderuole", una lista nera degli eterni voltagabbana, che hanno sempre infestato l'Italia, e sempre di più negli ultimi cinquant'anni: eroi del "tengo famiglia", pronti a tutto pur di ottenere tutto; geni dell'"arte di arrangiarsi", campioni del travestimento permanente, capaci di cambiare il doppio petto del borghese con la camicia nera, la camicia nera con quella rossa, quella rossa con la cotta bianca dei chierichetti, pronti naturalmente a trasformarsi in comunistelli di sagrestia, ecc. ecc. Tripodi ha conosciuto tutti questi signori; li ha frequentati, ieri e oggi; li ha riconosciuti, sotto i loro diversi abiti e, ora, in queste pagine li descrive. Sono personaggi che hanno nomi celebri e si chiamano Alfonso Gatto, Alberto Lattuada, Renaro Guttuso, Federico Zardi, Ugo Spirito, Leonida Repaci, Carlo Muscetta, e poi ecco i politici: Luigi Preti, Aldo Moro, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Giuseppe Medici, Paolo Emilio Taviani, Amintore Fanfani, Mario Alicata, Carlo Donat Cattin, e cento e cento altri. Questo libro descrive le loro idee, le loro opere, i loro scritti, durante il fascismo, che hanno cercato di dimenticare e di far dimenticare agli italiani, durante l'antifa-scismo. É, quindi, un libro di memorie destinato a chi non vuol perdere la memoria; un manuale per comprendere, studiando l'ieri, i fatti e misfatti dell'oggi.

 
Incuriositi da tale presentazione iniziammo a compulsare il libro, e, a pagina 169, leggemmo le seguenti righe, apparse nel giugno 1936 su Vita e Pensiero, organo dell'Università Cattolica:

 
"Addis Abeba é italiana! La pace é ristabilita! Vittorio Emanuele III Imperatore d'Etiopia! Il popolo italiano è ancora nell'entusiasmo di queste notizie. Riecheggia ancora il grido commosso del Duce: Viva l'Italia! A questa Italia dalla volontà possente il mondo guarda attonito, perplesso, ammirato. All'esercito vittorioso, alla Maestà Imperiale del Re, al suo Duce, al Maresciallo Badoglio, il popolo italiano ha elevato l'espressione della sua riconoscenza... Anche il nuovo Impero dell'Italia in Africa ha da avere un significato spirituale. Fondato sotto i segni del Littorio esso è l'erede di Roma imperiale; ha dietro a se la più fulgida tradizione della storia, quella in cui s'è innestato il tralcio rinnovatore di Gesù Cristo... L'Italia ha oggi in Africa Orientale non le sue floride colonie, ma il suo Impero, perché attua anche laggiù i principi mussoliniani del "vivere pe-ricolosamente", del "credere, obbedire, combattere"; perché pone sull'Acrocoro, cuore dell'Africa, un segnacolo di quella civiltà che è nella sua essenza positiva, la civiltà cristiana".

 
Con nostro incommensurabile stupore e sbigottimento, rimanemmo allibiti nello scoprire che il passo di cui sopra, glorificante la guerra di conquista e d'aggressione fascista, la prevaricazione e l'oppressione delle minoranze etniche, e l'esecranda figura del Duce, autore della repressione delle libertà civili e poi dissennato artefice delle indicibili leggi razziali e della criminale alleanza con il delinquenziale nazismo, non era stato un volgare Farinacci, un servile Starace, o un golpista Junio Valerio Borghese qualsiasi, ma proprio il nostro eminentissimo Paolo Emilio Taviani, solo qualche anno dopo invitto comandante partigiano, colui che sconfisse, con ardito colpo di mano, nel breve volgere di un meriggio, un "intero corpo d'armata nazista", colui che fondò l'Italia Repubblicana assieme a uomini come Pietro Ingrao, Aldo Moro, Amintore Fanfani… peraltro svelati anche essi nell'agile libretto sopraccitato come puntuali autori di lirici testi inneggianti al Duce, all'Impero, al Fascismo e alle sue politiche sociali, alle sue guerre, e alle sue mirabili sorti. Ohibò, che sorprese invero riserva la vita! Ma troppo sto facendo attendere i miei men che venticinque lettori. Nelle pagine seguenti troverete i passi colti dal libro del Tripodi riguardanti l'entusiastica partecipazione del nostro Taviani alla vita culturale del ventennio fascista, partecipazione collocata cronologicamente proprio dal 1934 al 1943, e omessa o minimizzata nelle sue biografie, ovvero elegie. Certi di fare cosa gradita al let-tore, li facciamo precedere dall'introduzione dell'autore, e seguire dalle pagine del libro "Italia fascista in piedi!", recentemente ripubblicato da Edizioni Settimo Sigillo di Roma, dedicate agli scritti fascistissimi di politici quali Fanfani e Moro e letterati del calibro di Bocca, Quasimodo, e Ungaretti, e, infine, diamo anche un rapido sguardo alle recenti polemiche giornalistiche concernenti i camerati Bobbio, Fo, Biagi, e Einaudi. Facciamo ciò mossi esclusivamente dallo spirito di equità nei confronti del compianto Taviani, a dimostrazione che fu certamente in buona compagnia nel tessere sperticatamente le lodi del mai abbastanza vituperato fascismo.
Buona lettura!

 

 
INTRODVZIONE

 
PRECISIAMO LE COSE

 
Per quanto la letteratura politica, che dal 1945 viene ai nostri giorni, sia ricchissima di "memorie", le mie non hanno con esse nulla da dividere. Ammetto che l'espediente memorialistico sia soltanto una chiave. In realtà questo libro ha un sommesso proposito, ma non é storico e nemmeno é morale. Non voglio assicurare ai secoli, attraverso il ricordo, un bel nulla. Nella storiografia non esiste "il modo di vedere come sono andate le cose" auspicato dal Ranke. La storia é sempre e soltanto epopea, cioè proiezione del mito politico in cui lo storico crede, o che subisce. Perciò a nulla vale denunciare alla storia che nel giro di un biennio, tra il 1943 e il '45, gli italiani mutarono convincimento come si muta piatto tra un cibo e l'altro. La storia é sorda. Dice sempre di sì. Se é scritta dalla mia parte, lo sa già, e condanna il fenomeno come versipellismo, infedeltà, defezione. Se é scritta dagli altri, lo sa lo stesso, ma lo esalta come superamento dell'errore e liberazione dal peccato. Sì, mi consta che agli storici di parte avversa i "duri" della mia parte usino fare questo ragionamento: non basta che i ravveduti Fanfani o i pentiti Lajolo accettino di avere creduto nel fascismo, ma di essersene staccati per il crimine della guerra o per l'ineluttabile sipario calato sul successivo crollo del regime. E non basta non perché essi continuarono a credere o a dir di credere anche dopo la proclamazione della guerra, e quasi sino ai margini del 25 luglio, e qualcuno anche dopo, abiurando solo quando la sconfitta apparve certa, ma perché, oltre alla professata fede nel fascismo, affermarono e scrissero di ripudiare come inetta la democrazia e come falso il comunismo. Costoro pertanto non sfuggirebbero ad una duplice confusione. La prima, avendo efficacia temporale e cioè l'abiura del fascismo sconfitto e finito, potrebbe essere umanamente compresa, pure ammonendo che é lecito dire "basta", ma é ridicolo dire "abbasso", dato che il vilipendio coinvolge anche gli scritti, i fatti e i propositi di questi ex fascisti. Ma la seconda, e cioè l'adozione e l'esaltazione della democrazia o del comunismo, non può passare. Essa é paradossale in termini teorici, in quanto comporta la sconfessione della loro costruzione mentale e l'assurdità del nuovo sistema politico prescelto, ma tratto da quei due miti che essi stessi avevano denunciato erronei. Ed é involutiva in termini pratici, in quanto l'accettazione del sistema politico del vincitore, addotta o perché inevitabile, o grazie al cinico dogma che in politica chi vince ha ragione, non evita il dilemma. A vincere furono due mondi ideologicamente contrapposti, il democratico e il comunista: chi dei due é nel giusto, se é la vittoria a commisurare la giustizia dei governi? I "duri" della mia parte seguitano a polemizzare ancora: voi, vecchi fascisti divenuti antifascisti, adducete a discarico che il concorso dato alla "resistenza" sia il vostro lavacro purificatore. Combattendo in qualità di "part-giani" vi sareste redenti da tutti gli errori, sia da quelli fatti sostenendo il fascismo, sia dagli altri commessi denegando la democrazia. Ma questo non é un ragionamento; tutto al più é una mistica, la quale conta soltanto per chi la professa. In linea di pensiero é un'allucinata castroneria. E se fosse un ragionamento? Fuori allora i vostri certificati di combattimento. Non venite a dirci che combattevate lungo i placidi laghi svizzeri o a Bari. Quando un grande peccatore vuole espiare, cattolicamente, piglia il saio e cerca il luogo di purgazione in Cina, ai tropici, o si macera in un rigido ascetismo. Non si limita a chiedere ospitalità nei conventi. Si fa insomma anacoreta, o parte per le missioni. Non si fa terziario francescano. Voi non siete che terziari partigiani. Anzi non siete che furbi marinai, con le mani pronte alle vele da orzare col vento. E non consta che i partigiani abbiano "resistito" anche sulle barche. Debbo, mio malgrado, accantonare queste argomentazioni. Esse sconfinano nel precetto morale, e ho detto che il mio libro non solleva censure. Se c'é un antico romano che mi dà fastidio é Catone. Anche perché, se le accettassi, dovrei concludere che, difettando la coscienza e la logica nelle conversioni e nelle scelte fatte tra il '43 e il '45 dai Moro e dai Fortunati, dai Preti e dai Fanfani, dai Vigorelli e dai Del Bo, dai Chilanti e dai Corona, al fondo non resta che il profitto politico e pratico. Di fronte ad esso, l'unica conclusione valida dovrebbe esser quella dell'onesto scrittore antifascista Piero Operti: "Le conversioni in senso vantaggioso sono sospettabili, salvo il caso in cui il convertito, riconoscendo di essersi sbagliato una volta e quindi di potersi sbagliare anche ora, si chiudesse per il resto della vita nel silenzio". Qui tutti hanno sbagliato, e non una volta ma tre, cioè esaltando il fascismo, ripudiando democrazia e socialcomunismo, adottando poi l'una o l'altro. Eppure seguitano a parlare come se nulla fosse. E gli italiani li stanno a sentire e ne applaudono, come nel Rinascimento, la "doppia verità". La morale é dunque come la storia. Dice sempre di sì. Accantoniamola. Però il libro, se non ha una tesi morale, e nemmeno storica, potrebbe avere, come abbiamo detto, una riserva politica. Che é questa: ha il diritto di contestare a me; o a tantissimi altri italiani, l'aver detto, scritto, pensato o fatto certe "cosacce", chi le ha dette, scritte, pensate o fatte come noi e più ancora di noi? "Cosacce" fasciste, s'intende. Mi pare che la recrudescenza attuale dell'antifascismo, superato il periodo virulento e irrazionale della guerra civile, sia artificiosa. Mira soltanto a scopi occasionali. É lotta di un partito contro un altro. In termini ideologici é stravagante. Democristiani, comunisti, socialisti, socialdemocratici, liberali, repubblicani, monarchici, possono sostenere il superamento del loro fascismo di ieri, ma, poiché i loro partiti rigurgitano di ex fascisti, non possono dare l'ostracismo ad altri gruppi politici che ne hanno quanti essi ne hanno. Il lettore lamenterà che quest'intento è troppo legato alle labili circostanze del momento (1), e perciò non legittima il libro. Vorrei rispondergli che, purtroppo, non sappiamo più a quali cose durevoli affidarci. Si vive alla giornata. Ci si difende dalla cronaca. L'alta storia non la governa più nessuno. Comunque: habent sua fata libelli. Se poi, ed escludo che lo meritino, i capitoli che seguono dovessero lo stesso guadagnare credito e interesse al di là della congiuntura, e le cose narrate mutarsi in materia, quando che sia, di critica al costume dei tempi nostri, allora il lettore non mandi immune da pecche nemmeno me. Anch'io talvolta "dissi male di Garibaldi", seppure con l'attenuante d'essere rimasto sempre coi garibaldini (2).

 

 
(1) Probabilmente Tripodi, che manda alle stampe la prima edizione del libro nel settembre 1960, si riferisce alla situazione del MSI dopo i disordini di Genova del luglio 1960; sino ad allora l'MSI aveva avuto un ruolo di rilievo nella politica italiana, fornendo voti importanti ai governi precedenti. Ma, come scrive Domenico Mennitti in N. Rao, La fiamma e la celtica, Milano, 2006, pp. 88-90: Il vero isolamento nasce dopo i fatti di Genova, quando la Dc, avendo deciso di spostarsi a sinistra, non vuole avere nessun concorrente nel suo bacino elettorale, tanto meno un pericoloso concorrente come un partito democratico di destra. Di qui l'esigenza di introdurre elementi come l'antifascismo, l'arco costituzionae, eccetera.
(2) N. Tripodi, Italia fascista in piedi!, Milano, 1975, pp. 9-12.

 

 

 
CAMERATA PAOLO EMILIO TAVIANI
PRESENTE!

 
TAVIANI D'ACCORDO CON LA MALFA

 
Nel 1935 i convegni più animati furono naturalmente quelli politici, dalla dottrina del fascismo all'economia corporativa, alla politica estera, all'organizzazione politica, al giornalismo. Il 28 aprile, il Messaggero scrisse: "Il fascismo come dottrina e come fede ha trionfato come bene comune e senza ombra di retorica. Dei vari convegni alcuni hanno avuto maggiore fortuna o successo di altri che, forse per colpa dell'argomento o per scarsezza di partecipazione, sono stati seguiti con minore attenzione. Anche se talvolta i frutti da essi dati sono stati abbondanti. Notevoli per la vivacità e l'utilità del dibattito i Convegni di Studi corporativi e di dottrina generale del fascio. Questi sono stati i più interessanti anche perché, al di sopra di tutti gli schemi teorici presentati, hanno dato modo di constatare nei giovani una praticità costruttiva grandissima; moltissimi hanno fondato le loro idee sulla vera realtà economica e politica della Nazione italiana. Al convegno di politica estera e coloniale l'analisi precisa delle possibilità internazionali dell'Italia si è svolta con carattere di molta serietà e disciplina per merito anche della commissione giudicatrice". Era il convegno tanto lodato l'anno prima per la sua ortodossia fascista dal futuro ministro [della Democrazia Cristiana, NdC] Bosco: evidentemente i giovani si erano messi con impegno sulla strada totalitaria da lui raccomandata. Gli altri due convegni di struttura erano quelli di studi corporativi e di dottrina fascista […] quell'anno il camerata Moro non aveva osato affrontarli, preferendo un temuccio secondario e stitico. Più coraggio aveva avuto il futuro ministro e segretario nazionale della DC, Paolo Emilio Taviani, il quale, con l'esperienza tratta dalla partecipazione fiorentina dell'anno precedente, si era iscritto a tutti e due i convegni: quello corporativo e l'altro di dottrina del fascismo. O la va o la spacca. Ricordo Taviani perché il suo nome precedeva il mio nell'elenco dei presenti al convegno sul tema: "Caratteri generali dell'economia corporativa fascista". Quell'anno egli partecipava non più col GUF di Genova, ma con quello di Pisa. Era stato infatti ammesso, come "convittore a posto gratuito", alla frequenza del Collegio Mussolini, annesso alla R. Scuola Normale Superiore della città. Nel Collegio, al quale tenevano moltissimo tanto Gentile quanto Bottai, si allevavano le più promettenti giovinezze rivoluzionarie. Gli allievi migliori erano mantenuti a spese del regime. Vi si accedeva superando un concorso bandito ogni anno da Giovanni Gentile, e limi-tato ai più prestanti elementi delle organizzazioni del Littorio. "In questa Scuola", scriveva il direttore di uno dei corsi, cioè Widar Cesarini Sforza, insigne studioso, "non solo i giovani arricchiscono la loro preparazione giuridico-economica ma partecipano anch'essi, con fresche energie alla elaborazione e sistemazione delle nuove dottrine. Il Collegio Mussolini, sorto nel 1931, offre agli studenti e ai laureati che hanno il privilegio di appartenervi, speciali e forti incentivi allo studio, molteplici opportunità di lavoro e soprattutto un ambiente ne quale si contemperano il raccoglimento propizio alla maturazione delle idee e la vivace adesione ai problemi politico-sociali della rivoluzione fascista". Tra cotesti fertili solchi littori, la democrazia cristiana allevò, lungo gli anni Trenta, oltre al ministro Paolo Emilio Taviani, anche il ministro Mario Ferrari-Aggradi. Il partito socialista non mancò di educarvi alcuni dei suoi migliori, e in particolare l'onorevole Achille Corona, futuro ministro del turismo e dello spettacolo. Potremmo continuare l'elenco anche per i liberali e altri coerenti partiti dell'Italia antifascista, ma ciò ci porterebbe su altre vie. Nel convegno di economia corporativa eravamo divisi in due gruppi, gli oltranzisti e i conservatori. Riflettevamo così le tendenze della commissione che andava da Bruno Biagi ad Ugo Spirito, cioè da un metodico difensore delle norme corporative codificate al rivoluzionario filosofo della "corporazione integrale". Si discusse col sangue agli occhi. Io, con Volpe di Salerno, Martignetti di Roma e pochissimi altri eravamo per l'evoluzione dell'ordinamento sociale sino a fare assorbire il sindacato dalla corporazione. Gli altri, tra cui Taviani e il raziocinante Pietro Ferraro di Padova, che fu littore e che incontreremo ancora, erano per la coesistenza tra sindacato e corporazione. Un altro punto controverso verteva sul cosiddetto "salario corporativo". I primi lo tiravano sino alla compartecipazione agli utili, i secondi pretendevano il rispetto del suo carattere retributivo. La disputa appassionerà la giovane generazione fascista fino all'epilogo del regime. Pensate che tra il 1942 e il 1943 seguitava ad occuparsene, sulla rivista La Terra, il poi ministro della difesa e presidente del Consiglio Giulio Andreotti (per la verità la rivista lo qualificava semplicemente "il camerata Andreotti"), in uno degli acuti articoli con i quali seguiva ed illustrava gli avvenimenti di quest'ultimo scorcio del Ventennio. Da parte nostra si polemizzava tenendo come breviario il recente libro di Spirito, Capitalismo e Corporativismo, elettrizzante saggio che, a radicarcisi, non poteva portare che alle mete politiche oggi attinte dall'autore. Gli altri ci sbattevano in faccia il numero della rivista "Nuovi studi di diritto, economia e politica," che lo stesso Spirito dirigeva con Arnaldo Volpicelli. Vi era pubblicato un loico saggio dell'attuale segretario del partito repubblicano Ugo La Malfa (non se ne salva uno dal compromesso col Ventennio!), contrario a quel libro di Spirito. L'onorevole La Malfa, prendendo lo spunto dalla identificazione spiritiana tra individuo e Stato, riteneva che essa adulterasse il fatto economico risolvendolo in storia e politica e contrastasse le conclusioni del Convegno di Ferrara. La Malfa allora parlava un linguaggio spiccatamente liberale, opposto a quello parasocialista di adesso. Adesso é lui che dice le cose che allora contestava al professore Ugo Spirito perché erronee e caduche. Il solito imbroglio dei tempi. Bisognava riprendere e conciliare la dialettica degli opposti, il che fece abilmente il ministro Rossoni, presidente della Commissione. Egli, inseritosi nel dibattito, risalì alle direttive generali del fascismo, sorgenti dalla dichiarazione del Duce sul corporativismo come realizzazione di una più alta giustizia sociale, e, dando un colpo al cerchio e uno alla botte concluse che Taviani e Tripodi erano in fondo tutt'e due sul binario della Rivoluzione. Ma credo lo fosse di più Taviani, almeno sul piano teoretico, tant'è che, qualche mese dopo, come può leggersi sull'Annuario dell'Università di Pisa conseguì col massimo dei voti il diploma di perfezionamento in Scienze corporative fasciste. Io, no (1).

 

 
LA RESISTENZA DELLA PRIMA ORA

 
Questo il clima nel quale ebbe inizio l'ultima e malinconica manifestazione dei littoriali della cultura. Malinconica perché molti di noi se n'erano un po' stancati o staccati. De Marzio era passato a fare in permanenza il commissario, io giravo ozioso a curiosare tra i convegni, Gianni Roberti non s'era piú visto, Almirante si occupava di altre cose. Coloro che non se n'erano stufati, che si trovavano a loro agio nella più tipica oleografia fascista, che rincorrevano ancora l'agognato titolo di littore, coloro che "resistevano", erano i camerati che oggi fanno i giornalisti o i capipartito a difesa del fuoco sacro dell'antifascismo e dell'altra "Resistenza", da Ferrari-Aggradi ad Antonello Trombadori ad Aurelio Roncaglia. In tutti costoro non vibrava peró solo il pensiero impotente di Amleto. In essi era l'azione, era la vita nei GUF, la continua collaborazione a giornali e riviste del regime, era la volontà goethiana di Faust di rifarsi ogni anno più giovani e fascisti nel lavacro dei littoriali. Quel crepitio di mitragliatrici, quello spirito combattentistico che permeava i temi di tutti i convegni, quel parlare di guerra ad ogni momento, richiamarono a Bologna il Paolo Emilio Taviani; fu forse in quell'occasione che sbocciò in lui il germe del futuro ministro democristiano delle forze armate. Era da sette lunghi anni, era dal 1935, che Taviani insisteva di convegno in convegno sul corporativismo fascista. Lo scorsi negli androni del palazzo della provincia, in via Zamboni 13, tra un drappello di camicie nere liguri. Concorreva di nuovo col GUF di Genova. Il tema in discussione era: "1'economia corporativa e la guerra". Argomento scottante. Gli aspetti di esso, e sui quali gli universitari fascisti furono chiamati a misurarsi, da Enzo Pezzato che fu proclamato littore e che morirà fucilato dai partigiani pochi anni dopo, a Taviani che si classificò nono, e si troverà coi partigiani contro i camerati di Pezzato, riflettevano l'autarchia, la guerra economica, i bisogni di guerra e i bisogni di pace, la restrizione dei consumi, l'accumulo dei mezzi di potenza, le corporazioni come organi unitari del comando economico. A classifiche pubblicate, oh quanto mi rammaricai allora e quanto sinceramente mi rammarico adesso di non aver trovato Taviani littore! Se lo meritava, dopo tanta insistenza non soltanto ai Littoriali, ma anche nei segnalati articoli e saggi sul regime corporativo fascista apparsi in quegli anni a sua firma, e che ritrovo in alcuni numeri della rassegna Vita e Pensiero, organo dell'Università Cattolica. Ricordo il saggio dell'agosto 1935 intitolato "I conflitti del lavoro e il regime corporativo", nel quale sosteneva il buon diritto della società di stroncare le controversie collettive del lavoro e di adottare sanzioni legali contro gli scioperi e le serrate al fine di "toglier via la possibilità di trasformare le na-turali divergenze di interessi egoistici in lotte perniciose alla produzione e allo Stato". Commendevoli concetti che il giovane Taviani traduceva nel 1936 in altri studi, come "Rilievi sul salario corporativo", e persino in un saggio di sociologia comparata esteso al regime hitleriano: "Come il nazionalsocialismo risolve il problema classista" (2). Né mancava nel suo repertorio l'esultanza per la conquista dell'Impero. Sono sue queste frasi tratte da un lungo articolo del giugno 1936 su Vita e Pensiero: "Addis Abeba é italiana! La pace é ristabilita! Vittorio Emanuele III Imperatore d'Etiopia! Il popolo italiano è ancora nell'entusiasmo di queste notizie. Riecheggia ancora il grido commosso del Duce: Viva l'Italia! A questa Italia dalla volontà possente il mondo guarda attonito, perplesso, ammirato. All'esercito vittorioso, alla Maestà Imperiale del Re, al suo Duce, al Maresciallo Badoglio, il popolo italiano ha elevato l'espressione della sua riconoscenza... Anche il nuovo Impero dell'Italia in Africa ha da avere un significato spirituale. Fondato sotto i segni del Littorio esso è l'erede di Roma imperiale; ha dietro a se la più fulgida tradizione della storia, quella in cui s'è innestato il tralcio rinnovatore di Gesù Cristo... L'Italia ha oggi in Africa Orientale non le sue floride colonie, ma il suo Impero, perché attua anche laggiù i principi mussoliniani del "vivere pericolosamente", del "credere, obbedire, combattere"; perché pone sull'Acrocoro, cuore dell'Africa, un segnacolo di quella civiltà che è nella sua essenza positiva, la civiltà cristiana" (3). Caro e buon Taviani! Ecco perché mi dispiacque, in quella manifestazione finale, dopo tante pagine spese per esaltare il fascismo, dopo tanti scrupolosi studi condotti al Collegio Mussolini di Pisa e alla Cattolica di Milano per realizzare il suo sogno cesaropapista, per vedere coniugati l'aspersorio e il manganello, saperlo ammesso ancora una volta in graduatoria nazionale, ma al nono posto, e non risultare così littore. Ci aveva puntato sopra per sette lunghissimi anni. Ma ormai era finita. Non gli restava che cambiare bandiera (4).

 

 
(1) N. Tripodi, op. cit., pp. 57-61
(2) L'estensore di un agiografico sito internet su Taviani, oltre − ovviamente − a non segnalare gli scritti più apologetici del defunto Senatore genovese, oppure a non commentarli, superando di gran lunga non solo la soglia dell'estrema scorrettezza storiografica e della disonestà intellettuale, ma anche della decenza, postula come quest'ultimo saggio sia una "Critica − assai pesante nelle pagine conclusive − del sistema economico-sociale nazionalsocialista, definito un gigante con un'anima di pigmeo". Non avrebbe dovuto essere difficile comprendere che, se Taviani stroncava le soluzioni nazionalsocialiste al "problema classista", era semplicemente per far rifulgere maggiormente la soluzioni del regime fascista del quale era, ancora per il momento, sfavillante cantore e interessato laudatore.
(3) Lucia Ceci, in un interessante saggio apparso su "Italia Contemporanea" del dicembre 2003, nel quale peraltro "Vita e Pensiero", dove fiorirono numerosi scritti di Taviani, è definita una delle riviste "clerico-fasciste o molto vicine al regime", riporta:

 
Insomma per gran parte dell'episcopato la "vera guerra", "ingiusta, incivile, insensata", era quella aperta dalla Società delle nazioni, vale a dire dai paesi protestanti, mediante le sanzioni, mentre l'esperienza coloniale italiana, come affermava monsignor Giuseppe Lojacono, non poteva a rigore neanche essere considerata una guerra, in ragione del fatto che essa aveva "lo scopo di aprire le porte dell'Etiopia alla Fede Cattolica e alla civiltà di Roma". L'accentuazione delle potenzialità missionarie della guerra coloniale di Etiopia si ritrova anche sulla stampa cattolica. E non solo in riviste clerico-fasciste o molto vicine al regime, come "Il Frontespizio", "Vita e Pensiero", "La Rivista del clero italiano", o in riviste missionarie come "Le Missioni illustrate", "Le Missioni domenicane", "Il Massaia", nelle quali ultime l'entusiastica esaltazione delle prospettive di diffusione del cattolicesimo aperte dalla conquista italiana sembrava escludere a priori la necessità di una valutazione circa la legittimità morale di tale conquista.

 
(4) N. Tripodi, op. cit., pp. 167-170

 
CAMERATA AMINTORE FANFANI
PRESENTE!

 
FANFANI ERVDISCE IL PUPO

 
Poiché Taviani apparteneva all'ala clerico-fascista dei littoriali, pensiamo se ne sia allora rammaricato anche quel solerte ometto del professor Amintore Fanfani che in tutti quegli anni si era più volte prodigato per spiegare le dottrine economiche e sociali del fascismo ai giovani, tanto più che tra di essi c'erano due, giustappunto Paolo Emilio Taviani ed Aldo Moro, che in seguito avrebbero dovuto spartire con lui il privilegio di assumere l'alto incarico di segretari nazionali della Democrazia cristiana. Tanto più ancora che il secondo, al par di lui, si sarebbe fatto paladino meticoloso ed austero di preclusioni antifasciste. Come non assicurare al curriculum vitae di queste glandole sebacee della democrazia il titolo di littori di Mussolini? Il senatore Fanfani, infatti, non aveva fermato la sua opera di educatore fascista agli studi corporativi ed al-e esaltazioni degli anni fausti e coevi alla fondazione dell'Impero. É comprensibile che, in quel 1936 avaro di teoriche sistematiche, ma prodigo di speranze sistemative, egli avesse anche pubblicato per l'Istituto coloniale fascista di Milano un saggio dal titolo Cin-quant'anni di preparazione all'Impero, per proclamare che a Mussolini spettava "la preveggente preparazione di forze nuove per superare la politica del piede di casa", e per lanciare la Nazione sulla via di un progresso con molte avventure. Però due anni dopo, nel luglio 1938, gli orizzonti ingrigiscono. Dieci docenti universitari stilano un terribile documento. Il regime vi fonda sopra la politica razziale ed antiebraica. Ci siamo. Che cosa fa il professore Fanfani? Protesta? O, come scrisse, offendendolo per il grossolano mendacio, Nicola Adelfi all'Europeo del 24 gennaio 1954, "resta attivo e vigile, solo per fare al regime tutto il male che gli é possibile"? Lo vedremo. Ancora un altro biennio e, nel giugno 1940, Mussolini apre il balcone di Palazzo Venezia e proclama la guerra alle Grandi Democrazie. Come si regola il senatore Fanfani? La dichiara antipopolare? perduta in partenza? bieca e dittatoriale? Raccontiamo una vicenduola che, nonostante sembri all'inizio non commendevole per lui, conclude poi con lo sconfessare chi cerchi portargli via i meriti littori acquisiti in quegli storici avvenimenti.

 
VN LIBRO TOLTO DI MEZZO

 
A metà luglio 1953, l'Unità, dimentica dei pedaggi pagati al regime dai numerosissimi suoi parlamentari e dirigenti comunisti, pubblicò un pesante articolo rivelatore delle attività fasciste dell'onorevole Fanfani. Il Fanfani, che allora era ministro dell'interno, il 24 luglio indirizzò una fiera lettera alla direzione del quotidiano del PCI per smentire alcune banali circostanze littorie di cui era stato detto protagonista: esse, in verità, nulla toglievano e nulla aggiungevano alle sue benemerenze nel Ventennio. Le smentite furono otto. L'ottava testualmente diceva: "I passi riprodotti in fac-simile nel suddetto articolo dell'Unità, relativi alla politica razziale e al partito nazionale fascista non sono miei, ma di C. Marzorati, come è indicato all'inizio della parte quinta del volume sul Significato del corporativismo". L'Unità, nonostante la diffida ai sensi dell'articolo 8 della legge sulla stampa, non pubblicò la lettera. Essa apparve però su altri giornali. Io ne ho copia sul Tempo del 28 luglio 1953. Confesso che, per molti anni, trascurai di arricchire la mia conoscenza del Ventennio con le nozioni del libro indicato in quell'ottava smentita. Poiché ad apprendere c'è sempre tempo, nell'aprile del 1960 lo chiesi alla biblioteca della Camera dei deputati. Presentata allo sportello la schedina, attesi un buon quarto d'ora che il commesso portasse il volume. Ma il commesso torna e dice che è in prestito dal 1953. Non volendomi privare del disinteressato godimento intellettuale, insisto per la ricerca della scheda del prestito, al fine di conoscere il parlamentare che aveva prelevato il libro sette anni prima e non l'aveva restituito: unico modo per sollecitarne la riconsegna. L'addetto fruga le più vecchie schede. E spunta fuori quella in questione. É datata 23 luglio 1953, ed è firmata: Amintore Fanfani. Gesù! Il libro se l'era preso lui, e l'aveva tolto dalla circolazione proprio il giorno prima di quel 24 luglio in cui spediva la lettera di fiera e reticente protesta all'organo comunista. Ebbi il torto di incaponirmi. Il 30 aprile 1960 scrissi al direttore della biblioteca della Camera esponendo brevemente la situazione e concludendo: "Poiché i sette anni trascorsi dal prestito avranno certamente esaudito le esigenze di compulsazione della sua medesima pubblicazione, la prego di invitare l'onorevole Fanfani a restituirla a questa biblioteca per poterne anch'io prendere visione. Mi permetto raccomandarle l'urgenza". Passati più di quindici giorni il libro ancora non si vedeva, ed io restavo privo di tanto pane spirituale. Finalmente, per assaporarlo, me lo sono dovuto andare a cercare per le città italiane. E in una di esse l'ho trovato. Il Presidente del Consiglio allora in carica meritava la mia attenzione.

 
VN ALIBI INEFFICACE

 
Fanfani aveva ragione. La parte quinta di questo suo libro edito a Como nel 1941, a guerra scoppiata, a politica razziale consumata, ad alleanza nazifascista consolidata, col suggestivo titolo "Il significato del corporativismo", testo ad uso dei licei e degli istituti magistrali, reca effettivamente, a fondo pagina, una esile noterella con la precisazione che "questa parte é del professor Carlo Marzorati del Liceo scientifico Gonzaga di Milano". Questa quinta parte é micidiale. Concerne la dottrina fascista e l'ordinamento costituzionale dello Stato. Lo Stato vi é lodato nelle sue più pesantí attribuzioni autoritarie, con esplicita sconfessione del dogma della sovranitá popolare. La dottrina vi é imperniata sulla soluzione del "problema della difesa della Razza come necessità biologica e come fatto spirituale di fronte all'urgente necessità di distruggere quel fenomeno dell'ebreizzazione che dall'unità d'Italia in poi dilagò in tutti i campi della cultura, della economia, della politica". Spietate, paurose cose, da legarsele al dito. Ora non sta a me biasimare l'onorevole Fanfani, mio non dimenticato maestro dei littoriali, per avere, nel 1953, ripudiato e gettato nelle spire della legislazione retroattiva contro il fascismo il suo ex collaboratore Marzorati. In queste pagine non ho problemi morali da risolvere. Ma in sede politica non posso non dirgli quanto inutile sia stata la sua fuga, con abbandono dell'amico al nemico. Prima delle pagine sti-ate dal Marzorati nella quinta ed ultima parte del libro (e il cui avallo, in tutti i casi, spetta di pieno diritto al Fanfani giacché il frontespizio reca soltanto il suo sonante nome e cognome), ce ne sono ben ottantacinque esclusivamente dovute alla sua penna insigne, e collaudanti le successive. A pagina 43, capitolo terzo, il Nostro, dopo avere precisato che "il sistema corporativo è un complesso di mezzi al servizio della Nazione italiana per raggiungere il più alto sviluppo politico ed economico", ed, ancora, che "il si-stema corporativo fascista vuole operare nella storia, risolvere problemi concreti, poggiare saldamente il piede sul terreno della realtà", esalta "i legami che vincolano virtù civica, valore militare, sanità di razza, sentimento religioso, amor di patria", alla popolazione rurale, cioè alla parte più nobile di nostra gente, onorata "dall'affermazione del Duce che bisogna ruralizzare l'Italia anche se occorrono miliardi e mezzo secolo". L'elogiativo richiamo alle impostazioni razziali della politica fascista é esplicito. Dietro di esso fece bene a incamminarsi, poche pagine dopo, con l'obbedienza di un allievo al maestro, il povero Marzorati. Era dunque inutile sacrificarlo additandolo allo sprezzo dell'antifascismo, e sbarazzandosene come di peso estraneo ed incomodo. Questo conturbante libro apologetico dell'antifascista Fanfani, scritto senza riserve, senza doppi sensi, senza avarizia di citazioni mussoliniane, le cui edizioni si sono succedute dal 1936 al 1941 dandogli, mercé la vendita nelle scuole italiane, proventi economici doviziosi (ecco un mancato processo per profitti di regime, ecco un'omessa dichiarazione di invalidità elettiva a deputato per avere l'autore pubblicato libri di testo sul fascismo) é, anche nella preminente parte stilata dal grande aretino, uno dei libri che arricchiscono la bibliografia sul Ventennio, e ne puntellano i suffragi autoritari e totalitari alla concezione dello Stato. Bisogna dare atto che, quando Fanfani scriveva, non erano frivole cianfrusaglie le sue. I suoi libri, le sue monografie, i suoi articoli fascisti i-spiravano piena fiducia per quella essenzialità contenutistica che dogmaticamente li caratterizzava. Scriveva allora come adesso parla: il messia. Perciò l'integrazione finale del Marzorati era nel libro in esame solo cosa accessoria. Non rappresentava che l'applicazione istituzionale dei principi già tracciati dal maestro. D'altra parte, solo ciò spiega perché questi abbia tolto di mezzo il volume dalla più grande biblioteca politica della capitale alla vigilia di iniziare la sua polemica con l'Unità nel 1953, e si sia poi "dimenticato" di restituirlo.

 
IL CORPO DEL REATO

 
Il libro, scritto da Fanfani per le scuole medie italiane, inizia con un poderoso colpo di maglio al liberalismo e al socialismo che difendono il singolo e il collettivo, mentre "il fascismo difende innanzi tutto, e come supremo, l'interesse della Nazione", di cui tutore e difensore é lo Stato. E lo Stato "sotto il fascismo non deprime l'individuo, ma richiede, tutela, controlla e dirige la sua libera e responsabile collaborazione al raggiungimento dei fini comuni", introducendo i singoli nella sua cittadella come i migliori alleati. L'autore conforta questi sagaci brani col pensiero del dittatore, chiamato quasi sempre il Duce, anziché, semplicemente, Mussolini. "Tutto ciò significa", continua la camicia nera Fanfani, "che nel sistema sociale fascista é negato l'individualismo, non l'individuo, e a questo individuo si lascia la gioia, l'onore, la responsabilità di collaborare liberamente al raggiungimento della potenza della Nazione italiana." Dunque, la dittatura non era dittatura se lasciava integra la più sana libertà. É colui che si avvia a diventare uno dei più prestigiosi nomi della Democrazia Cristiana che, a meno di un anno dal 25 luglio, ancora lo insegna dalla cattedra a migliaia di allievi italiani. Sorvoliamo sulla scomunica lanciata a pagina 14 contro lo sciopero "tipico strumento di lotta del socialismo", che bene ha fatto il fascismo "a far diventare reato contro la pubblica economia". Sorvoliamo sul tenero paragrafino concernente la giustizia sociale al cui raggiungimento "il Duce più volte ha affermato che lo Stato corporativo mira come ad una nobile e necessaria meta" (qui la proluvie delle citazioni di scritti e discorsi mussoliniani si spreca). Sorvoliamo sulla successiva apofogia della terrea catena dei controlli economici che il sistema giuridico fascista instaura, giacché "non basta purtroppo educare l'uomo, ma occorre aiutarlo e vigilarlo dopo averlo educato, con la serie numerosa degli istituti che garantiscono la continuità degli atti economici conformi ai fini corporativi ed impediscono l'introdursi nell'interno dell'ordine corporativo di atti contrari a quei fini"; istituti raggruppati in tre categorie, quella politica cui appartiene il PNF, quella sindacale cui appartengono le associazioni di categoria, quella corporativa che inquadra gli enti corporativi. Con questa vantata catena l'individuo è imbarcato e bell'e cotto entro la caldaia totalitaria dell'economia corporativa e del partito unico. Fanfani soffia sul fuoco e porta legna da ardere. Sorvoliamo sugli esaltati diritti del governo "di sottoporre ad autorizzazione i nuovi impianti industriali", e sugli ampi riferimenti agli scopi della legge secondo l'illustrazione fattane alla Camera dal sottosegretario alle corporazioni, allora in carica, onorevole Alberto Asquini, alla cui successione il futuro segretario nazionale della DC aspira in cuor suo. Sorvoliamo sulle pagine autarchiche. Per il Fanfani del 1941 l'economia non é che un mezzo al servizio della politica (confronta pagina 61), e non può che tendere all'autonomia produttiva della Nazione. Chiudiamo con l'elogio degli istituti fascisti che operano nel campo della distribuzione della ricchezza, tra i quali il Nostro meritatamente cita e celebra il "provento dell'imposta sui celibi". Essa faceva tanto fascista.

 
FANFANI PREDICE IL DOPOGVERRA

 
Non si dica che questo era l'occhio scientifico dello studioso Fanfani, sensibilizzato da un fenomeno istituzionale comunque esistente. Non si lasci cioè sottointendere che il Fanfani politico pensasse diversamente, e cospirasse intanto contro il regime. Chi lo dice, legga un opuscolo che manca anche esso nella biblioteca del-a Camera dei deputati, ma che esiste nella biblioteca nazionale di Firenze. Ha per titolo "Progetti e speranze per il dopoguerra," é del novembre 1940 ed é pubblicato come estratto della Rivista Internazionale di Scienze Sociali. Una pillola per squisiti palati. Con essa il Fanfani cura le ansie di quanti si preoccupano dell'assetto della Europa dopo il conflitto aperto da Hitler e da Mussolini per difendere, secondo l'esaminata concezione bellica di Aldo Moro, la lesa "dignità" dei loro popoli. Su tale assetto il futuro piccolo presidente democristiano dorme sonni tranquilli, cullato dalle "dichiarazioni dei due Capi" e dagli scritti dei ministri Riccardi e Funk datati e accreditati. Egli comincia col sottolineare il destino ineluttabile dell'umanità di non potere evolversi se non attraverso dure esperienze belliche. E riconosce di buon grado che "in fondo, é la missione di un domani migliore che galvanizza i popoli fino a far loro accettare i gravissimi: sacrifici di un conflitto", giacché "gli eroi della guerra sono in fondo eroi per amore di una pace migliore", onde "si combatte perché si spera e mentre si combatte si pensa al domani". Da queste premesse ispirate al riconoscimento della missione storica di Hitler e di Mussolini, il Nostro deduce che "i governi d'Italia e di Germania danno l'esempio: conducono la lotta su teatri continentali e contemporaneamente in convegni ormai numerosi gettano le basi del futuro assetto europeo". Gli argomenti di questi convegni nazifascisti, insieme con la stampa e con gli scritti e i discorsi del Ministro fascista Riccardi e del Ministro nazista Funk, suggeriscono a Fanfani le prime linee del futuro ordinamento. Egli le definisce con sussiego come "le linee dell'edificio che i Capi sembra abbiano in animo di costruire". Responsabilmente, però precisa che ai particolari "nessuno ancora é sceso, ed é stata saggezza, perché, come fu autorevolmente dichiarato l'11 giugno [da Mussolini, s'intende, NdA], il programma immediato e la premessa di ogni riforma si riassume per ora in una parola: Vincere". L'eco fanfaniana di un popolare ritornello di quegli anni non ebbe eco nella storia. Noi non vincemmo e Fanfani dimenticò il preconizzato assetto dell'ordine nuovo. […]

 
FANFANI A DESTRA

 
[…] Sconfessato il sinistrismo socialistico, il professore Fanfani insegna agli studenti italiani che, tra la tesi liberale e l'antitesi collettivista, non c'é che una sintesi, quella del corporativismo fascista, da lui perorata con febbre di fedele, persuasione di pensatore e tecnica di colto insegnante. La controprova é in un dotto, successivo volume, intitolato Introduzione allo studio della storia economica (editore Giuffrè, 1941). In esso, i "successi della politica riordinatrice del Fascismo" sono ancora una volta collaudadati con parchi, ma rigorosi concetti scientifici, dopo il rigetto delle teoriche sovvertitrici del marxismo. La breve prefazione é firmata dall'autore, e datata Milano, 8 dicembre 1940 XIX. Rispettata l'era littoria, sulla storiografia economica contemporanea, a pagina 73, il Maestro scrive: "Per gli anni del dopoguerra, alla storia vera e propria si é sostituita la cronaca che con zelo é stata portata a termine ora da studiosi singoli, quali ad esempio l'Acerbo, il De Stefani, il Tassinari, intenti a documentare gli sforzi e i successi della politica riordinatrice del Fascismo; ora da enti che, in volumi, come ha voluto la Banca d'Italia, o in fascicoli speciali, come ha fatto l'Università Cattolica di Milano, seguono passo a passo l'evoluzione della situazione economica d'Italia. Si prepara così il materiale che, integrato dalle ricerche dell'Istituto Centrale di Statistica, faciliterà un giorno la stesura di una storia della vita economica dell'Italia fascista". Passa un anno. I littoriali chiudono il loro ciclo. I giovani cadono congelati lungo le bianche distese della Russia o stritolati dai carri pesanti britannici in Africa. Ma Fanfani attende ancora con lena allo studio dell'ordinamento fascísta che, di per sé, non é che studio di teoriche ed istituti opposti alle soluzioni eversive delle sinistre marxiste. Siamo nel 1942 quando, in una raccolta di studi diretta da Ettore Rota, l'eminente uomo politico della DC pubblica: Il problema corporativo nella sua evoluzione storica. É un erudito saggio di storia delle associazioni professionali, dalle rovine del mondo antico alla ricostruzione sociale dell'Ottocento, sino al ritorno del corporativismo nell'Europa contemporanea. Nella parte finale é dato positivo risalto al corporativismo fascista che ha "di mira il pacifico svolgimento della vita economica senz'ombra di violenza o di arbitrio privato", ed ha "al di fuori e al di sopra, come disciplinatore e garante del suo funzionamento, in armonia con i principi che lo fecero promuovere, il partito nazionale fascista". […] Il Maestro conclude che quello fascista, é il primo tipo concreto di organizzazione corporativa del secolo XX; gli altri movimenti europei collaterali non sono paragonabili al suo compiuto svolgimento. Meno di un anno dopo, il nemico sbarca in Sicilia e passa in Calabria, Amintore Fanfani, come folgorato sulla via di Damasco, muta casacca, diventa antifascista e se ne va in Svizzera. Dopo un annetto di comodo esilio torna a Milano, fonda la repubblica, le dà per mito la resistenza e si affretta a dichiarare che nessuno dei suoi ex allievi in camicia nera, e specie quelli rimasti fedeli ai suoi insegnamenti corporativi, potrà avere voce nella restaurata democrazia, e nemmeno contaminare col proprio appoggio un ministero da lui presieduto. Nulla da replicare. Il Maestro ha sempre ragione.

 

 

 
CAMERATA ALDO MORO
PRESENTE!

 
IL CONVEGNO DELLA FEDE

 
L'inverno stava per finire. Con Fortunati ci incontrammo più volte. Mi spiegò perché comunismo e liberalismo erano da respingere quali involuzioni negative della dialettica hegeliana, e perché il fascismo era la più perfetta e concreta delle dottrine politiche italiane. Quando le dorate sale della reggia palermitana [le quali ospitavano i Littoriali di Palermo del 1938, NdC] furono invase dai giovani arrivati da ogni parte d'ltalia, quando il povero e caro Mezzasoma dichiarò aperta la manifestazione, ero un po' emozionato tra quel centinaio di camerati in cinturone, stivaloni, camicia nera e spalline azzurre, iscritti al mio stesso convegno di dottrina del fascismo. I settentrionali facevano sempre impressione con i loro sci sci. I1 tema era: "Principi e valori universali del Fascismo". Presiedeva l'onorevole Ezio Maria Gray. C'erano anche in commissione il professore Antonino Pagliaro e il penalissta Giuseppe Maggiore. Segretario: Giancarlo Ballarati, littore dell'anno precedente, oggi uno dei migliori avvocati lombardi. Dalle altre sale si veniva spesso a sentire le nostre discussioni durate tre giorni, perché in esse si dibattevano temi cruciali per l'elaborazione teorica della Rivoluzione. Venne Bottai, spesso passava Mezzasoma, una delegazione nazista di studenti tedeschi, giunta dalla Germania, mostrava un morboso interesse per i nostri argomenti. Sulla pedana eravamo in tanti a dire un po' le medesime cose. I vecchi squadristi ci sfottevano, perché per essi il fascismo non andava spaccato come un pelo in quattro. Ma Moro, Roberti, Taviani, io, pensavamo che era meglio irrobustirlo con la polpa di una dottrina. E dicevamo: universale é quel principio politico che si pone come soluzione di un problema universale; il termine "universale" non va interpretato empiricamente in senso spaziale, ma determi-nandone il significato in sede conoscitiva. Universale non vuole dire "di tutti"; vuole indicare solo un valore assoluto che, in fase di conoscenza, si identifica col "vero". Vero é il fatto. Il fascismo é verità, é storia, in quanto esprime lo Stato fascista, realizzazione di un particolare concetto dell'organizzazione politica in cui si concreta. Scusatemi, forse i concetti sono un po' intricati, ma li ricordo bene perché sono gli stessi concetti che il professore Amintore Fanfani ci aveva insegnato tre anni prima in punto di universalità della dottrina corporativa. Comunque, sono autentici, quelli e non altri: li traggo tali e quali dagli opuscoli e dalle cronache riassuntive dell'epoca. Quelle medesime cronache che, su un giornale del 14 aprile 1938, testualmente riportano: "Le osservazioni più inte-ressanti si sono avute sempre nel senso universale del fascismo di fronte alla storia: e l'universalità della dottrina fascista come principio di dominio storico é stata posta in luce originalmente da Aldo Moro, di Bari".

 
GRAY GIVDICA MORO

 
Dunque, come le cronache dell'epoca fanno sapere, il futuro presidente del Consiglio e segretario politico della DC, l'intransigente capo delle sinistre cattoliche, l'aspirante presidente della Repubblica italiana, così ruggibondo contro i missini perché eredi, egli disse nel 1959 al congresso democristiano di Firenze, di un passato che fu "come la teorizzazione della dittatura, la legittimazione della violenza nei rapporti sociali, il rifiuto del travaglio difficile ma fecondo della democrazia", riteneva invece, quando il fascismo era in vita, e Mussolini vinceva le guerre, e il titolo di littore schiudeva rosei miraggi, che il fascismo avesse dalla sua la validità della storia, che fosse perciò universale, e potesse dirsi acquisito alla sua dottrina un principio autocratico di dominio. Ma per non discostarci troppo dall'autorevole pensiero del camerata Aldo Moro é meglio cedere direttamente a lui la parola, cioè farci da lui spiegare la dialettica dell'universalità fascista, com'egli stesso la concepì in quella primavera ferace. Siamo infatti ora in grado di disporre dell'articolo che Moro pubblicò subito dopo i littoriali di Palermo sul periodico Azione Fucina. Ne stralciamo la parte che ci interessa e che illumina di fede l'intelligenza del giovane autore: "Nel convegno di Dottrina del Fascismo si é sottoposto ad esame, quest'anno, un tema ampio ed assai importante: 'Principi e valori universali del fascismo'. Tutta la portata dell'argomento, era, a ben guardare, nel suo carattere di centralità. Perché é evidente che tutti gli aspetti della vita fascista e non gia soltanto di quella stret-tamente politica, prendono luce particolare, quando siano valutati di fronte ad un nucleo essenziale di dottrina, di cui siano riconosciuti i caratteri di universalità. É proprio e solo per questo, che si può parlare di un nuovo, completo sistema di civiltà fascista, tale che imponga all'Italia particolari compiti nella ricostruzione dell'agitato scacchiere politico europeo, le prospetti particolari problemi di politica educativa, determini un'attenta ricerca di valori, che nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, esprimano il valore fondamentale del Fascismo nella storia della civiltà. Il tema del convegno di dottrina del Fascismo è apparso così il tema centrale di questi Littoriali della Cultura dell'Anno XVI". Oh, se il fascismo non fosse caduto sotto le macerie di una guerra perduta! Come il Moro di oggi avrebbe cercato quel prezioso trafiletto del 14 aprile 1938 e quell'articolo di Azione Fucina, che merito se ne sarebbe fatto, magari per giungere a ministro anche sotto la dittatura, e comporre con Fanfani e con Ferrari-Aggradi un governo universal-fascista! A un certo punto del convegno la commissione riten-ne utile un più agevole metodo selettivo. Fece una cernita di una trentina di giovani e li invitò a discutere a scelta, il giorno dopo, questi sottotemi: l'elevazione della personalità nello Stato; criteri differenziali tra la concezione bolscevica del lavoro e quella fascista; i rapporti tra Stato e Nazione; il diritto, da Roma ad oggi, come primato universale del popolo italiano. lo scelsi quest'ultimo argomento, anche perché avevo fresca lettura di una monografia del professore Biondo Biondi, eminente Maestro democristiano della Università Cattolica, intitolata Romanità e Fascismo. Mi pare che Moro, incluso nella cernita finale, se leggo bene alcuni miei appunti fatti caliginosi dal tempo, abbia scelto invece il primo, di sapore totalitario e statolatra. In eliminatoria entrò anche l'attuale segretario generale della CISNAL e parlamentare missino, onorevole Giovanni Roberti. In conclusione vinsi io. Moro fu classificato al quinto posto. Ma si era un po' tutti a spalla. Forse qualche sfumatura a mio vantaggio provenne dal fatto che ero stato preparato in dottrina fascista da un potenziale senatore comunista, il professor Paolo Fortunati. Ma confesso che Aldo Moro, di fascismo, ne sapeva almeno quanto me. Infatti leggo in un ingiallito ritaglio quest'articolo del presidente del convegno, Ezio M. Gray; "Quando faticosamente potemmo scegliere nel gruppo, quasi alla pari, dei più degni, il littore di dottrina fascista, e lo annunciammo, quelli stessi che giustamente avevano potuto sperare di essere essi i vittoriosi, acclamarono d'impeto il camerata Tripodi e lo assaltarono di abbracci. Anche questo era da notare". Aveva ragione di abbracciarmi Aldo Moro! Se il littore fosse stato lui sarebbe finito epurato al mio posto, e a Montecitorio non avrebbe potuto che occupare uno scanno a destra, tra i deputati missini Manco e Caradonna. Che confusione, la storia!

 
(da "Camerata Taviani Presente!", a cura di A. Lombardi)

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