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mercoledì 6 novembre 2013

16 dicembre: Concerto per Carlo 2013

concertopercarlo

Walter Jeder è una delle figure più ecclettiche del nostro ambiente, impegnata nel giornalismo, nella radio, nella comunicazione e nelle collaborazioni musicali. Qui ripercorreremo gli anni dei Campi Hobbit fino al prossimo Concerto per Carlo attraverso gli occhi e le sensazioni di chi ha contribuito alla nascita e alla diffusione della Musica Alternativa.

Iniziamo dai primordi: so che sei stato molto attivo come giornalista fin da giovanissimo e che hai anche avuto occasione di fare teatro. Quanto ti è stata utile in particolare questa esperienza nella “militanza”?

Senza inclinare al reducismo, mi limiterò a dirvi che la militanza a destra nella rossa Liguria e nell’ateneo pisano non era una passeggiata di salute. Già negli anni ‘60 e ‘70 ci toccava di vivere in una condizione di “stranieri in patria”: se non volevi finire emarginato dovevi cercare strade nuove per rompere l’accerchiamento. L’esperienza del teatro giovanile finì col portarmi in dote maggior sicurezza col pubblico e una dialettica meno reticente, il giornalismo una scrittura efficace e una visione più nitida della realtà.

Sarebbe servito a poco se, a fare da detonatore, non ci fosse stata l’orgogliosa incazzatura di chi si sentiva ingiustamente escluso, figlio di una sconfitta recente che bruciava ancora. Se sceglievi di vivere “contro”, la prima necessità era quella di trovare il coraggio sufficiente a non farti mettere sotto: qualcosa che, alla faccia del Manzoni, uno doveva “saperselo dare”. Arrivarono poi le sfide quotidiane, a scuola o sul lavoro, a trasformare scrittura e voce in utensili buoni per la nostra battaglia.

Ho collaborato a tutte le testate della nostra area, da Civiltà al Candido. Ma le vere soddisfazioni sono venute da qualcosa di “minore” e di malvisto. Sulla scia di Castellacci e di Cirri, ho creduto che, tra troppo inchiostro, di noi sarebbe rimasta una piccola strofa, il testo di una canzone.

Un punto di svolta per la tua esperienza personale e per una buona parte della destra milanese è stata sicuramente Radio University: ti va di parlarcene brevemente?

Radio University è stata un’esperienza straordinaria. Sotto le sue antenne un’intera comunità umana si è ritrovata unita per resistere all’assedio. Ho passato centinaia di ore ad aprire, senza filtri, i suoi microfoni per dare voce a chi non ne aveva. Nonostante fosse tenuta insieme da un volontariato generoso ma approssimativo, R.U., con i suoi dibattiti, i suoi notiziari, la nascente musica alternativa, è stata una specie di terapia collettiva via etere, per resistere ad un mondo che, in quegli anni di sangue, pareva impazzito. Per me, che venivo dalla carta stampata, è stata una bella palestra di comunicazione bidirezionale. La ricordo con rimpianto ed emozione. Anche se ripenso che, troppe volte, svoltando quel fatale angolo di Milano, tra Corso 22 marzo e via Mancini avevamo rischiato la pelle per fare qualcosa che ai più non sarebbe apparso minimamente eroico.

Se dovessi spiegare in poche parole ai ragazzi di oggi chi eravate e cosa abbia significato essere di destra in quegli anni, cosa diresti?

L’età mi rende un po’ cinico e a volte mi domando se non ci fosse qualche burattinaio di troppo a tirare le fila di quegli anni maledetti. Resto però convinto che difendendo con le unghie e con i denti i nostri spazi vitali abbiamo tutelato con la nostra libertà quella di tutti gli italiani. Il muro non era ancora caduto: i comunisti non erano, l’abbiamo visto, uno spauracchio fasullo da propaganda ma una minaccia reale. Nonostante l’ostilità degli antifascisti cercavamo un’alternativa generazionale. Noi giovani sognavamo un’Europa libera dalla minaccia rossa e dall’ipoteca americana, riscoprivano i nostri autori “maledetti”, offrivamo soluzioni economiche e sociali originali. Eravamo davvero convinti che il futuro ci avrebbe dato ragione, che ci sarebbe appartenuto. Che contrasto con questi anni agnostici e un po’ disperanti…

I Campi Hobbit sono stati sicuramente l’evento della destra giovanile più importante degli anni 70/80, sia a livello culturale e musicale. Tu li hai presentati tutti e tre? Qual è quello di cui ha i ricordi migliori.

Certamente il migliore fu il primo. Nonostante l’ambientazione (un campo di calcio spellacchiato), tra le migliaia di ragazzi affluiti da tutta Italia, si creò una tensione ideale, una forza creativa, uno straordinario spirito di comunità.

Con il secondo Campo, nella cornice splendida di Fonte Romana, emersero già le tossine di una lotta che si era incattivita e cominciava a dividere e ad accecare il nostro mondo.

Il terzo, nonostante il notevole affinamento di musica e contenuti, peccò di qualche narcisismo di troppo.

No. A Castel Camponeschi non fui io a presentare.

Cosa è rimasto a tuo giudizio di quell’esperienza, dei Campi Hobbit, della nascita della musica alternativa, delle radio libere, che sia ancora valido oggi?

Tutto il progetto mantiene, ancor oggi, in forme mutate, una sua vitalità.

Mi manca molto la radiofonia. Credo che delle emittenti “nostre” avrebbero ancora uno straordinario ruolo corsaro da giocare. Vedo come le nuove esperienze, estese al Web, oggi, siano altrettante formidabili testimonianze di vitalità e potenzialità.

Ma come si fa sognare mentre il nostro mondo si frantuma in troppi cespuglietti, paghi della propria percentualina elettorale.

Oggi Walter Jeder ascolta ancora musica alternativa? C’è qualche gruppo o qualche artista che segui?

Quando posso, ascolto un po’ di tutto. Mi tuffo nel pozzo della nostalgia dell’archivio di Lorien, e ritrovo vecchi amici.

Ma il mare è vasto: così drizzo le orecchie anche ai nuovi gruppi identitari.

Mi piace scoprire timbri originali come quello di Skoll.

Hai collaborato attivamente come autore in particolare con Fabrizio Marzi; come è nato questo sodalizio artistico?

Erano gli anni dell’eclissi (e del divorzio artistico) da Leo Valeriano. Avevo collaborato al suo “Tempi da lupi” e, con pochi altri, continuavo a credere che una canzone valesse più di cento comizi! A Piacenza c’era questo roccioso cugino con una splendida voce alla De Andrè. Una specie di fratello giovane che ogni fine settimana trovavo abbracciato alla chitarra.

Gli proposi qualche testo eretico, ancora spoglio di musica, e Fabrizio ci si buttò sopra come un panzer. Nacque subito una grande intesa.

Radio University e qualche concerto in giro per l’Italia funzionarono subito da amplificatori. Ma francamente c’era anche la sostanza della sua voce, così particolare. Noi, schiavi del mangiacassette, riuscimmo ad entrare in una vera sala d’incisione. In tre giorni nacque un vinile 33 giri. Ci pareva impossibile.

Fabrizio Marzi: “Canzone per l’Europa”

Fuori dal panorama di area quali sono gli autori, o i gruppi musicali che ritieni maggiormente validi?

Ascolto malvolentieri la musica italiana di oggi. Sono figlio della stagione dei grandi cantautori e quindi cattivo giudice. Ma piuttosto che fare omaggio a certi temperamenti modesti di casa nostra, vinco la ritrosia, e ascolto melodie e ritmi di Oltreoceano, dove la selezione è forte, o mi placo cullandomi nelle sempreverdi ballate irlandesi…

Ma quando sei costituito di musica per due terzi, finisci col saltare anche le barriere delle scelte storiche: mio figlio canta e fa musica hardcore e confesso che, senza fargli torto, mi è piuttosto difficile stargli dietro!

Che ricordo personale hai di Carlo Venturino?

Carlo Venturino era davvero una bella persona. Colto, disponibile, dotato di una bella voce e ricco di originali idee musicali. Avvolgeva di un tratto gentile e mite una forza e una coerenza che pochi possono vantare. Lo ricordo, un inverno, in un angolo semibuio in corso Buenos Aires, le dita intirizzite strette al manico della chitarra: lui, già medico, aveva accettato di cantare in un presidio per l’Afghanistan, fregandosene del rischio fisico e della marginalità dell’evento.

Soprattutto mi piace ricordarlo nell’interminabile viaggio in treno verso Hobbit 1.

La sua bonaria simpatia era contagiosa. In quello scompartimento, pieno di fatica e di musica, trovammo anche il tempo di abbozzare una canzone insieme.

Resta una figura unica nella vicenda della nostra comunità.

Il mese scorso, il solito “giornalista di regime” ha montato la classica “trama nera” portando alla fuga del Teatro che era stato affittato per l’evento del 16 dicembre. Possibile che dopo 37 anni non sia cambiato niente?

Ho smesso da tempo di odiare la gente come Saverio Ferrari. Al contrario il poveretto mi fa una malinconia pazzesca. Tutto il suo mondo fanatico è andato in pezzi e lui, vicino alla vecchiaia, continua fare la sentinella di una guerra sanguinosa e fratricida, ululando patetici allarmi.

Stupisce, invece, il taglia e incolla acritico e falsario dei suoi sodali annidati nella stampa che conta. Per tacere degli omuncoli che, quarant’anni dopo, temono ancora le scomuniche della militanza “antifa”. Antifa de che?

Quali sono le tue sensazioni all’idea di un nuovo raduno di musicisti ed appassionati di cultura alternativa? E’ un cerchio che si chiude o una via che si apre?

Il ciclo potrebbe chiuderlo l’anagrafe spietata. Per i più anziani fra noi vi è certamente una componente di rimpianto, ma a vedere quanti gruppi sono sorti in questi anni non mi pare che si possa parlare di archiviazione.

I giovani hanno sete di futuro. E anche oggi, dove tutto sembra perdere di consistenza, sentono l’impulso di raccontare le loro emozioni, il loro sentire, nuove battaglie per idee dure a morire.

Come in quel giugno 1977 a Montesarchio (Primo Campo Hobbit) sarà di nuovo la tua voce a scandire la ricca scaletta del 16 Dicembre. Ti senti più emozionato o curioso?

Sì. Per la prima volta in vita mia, ho una fifa blu. Il compito mi onora e ridesta una sferzata dell’adrenalina dei miei vent’anni, ma…  Come sempre, mi basterà una semplice scaletta e mi rifugerò nella sincerità (pericolosa lo so) dell’improvvisazione. Alla fine, ha ragione Marco Venturino. Sarete voi, dopo, a dirci come sarà andata.

Grazie mille Walter!

A cura di Andrea e Alessandro 

Da: http://www.cantiribelli.com/

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