di Massimo Fini
L'11 gennaio comincerà la lavorazione del film
su Renato Vallanzasca prodotto dalla Twenty
Century Fox, con la regia di Michele Placido e
Kim Rossi Stuart nella parte di colui che fu "il
bel Renè". La circostanza mi offre lo spunto per
scrivere una "lettera aperta" al Presidente della
Repubblica per sollecitare una grazia che "il
bandito della Comasina" ha già chiesto qualche
anno fa ma che fu sdegnosamente respinta
dall'allora ministro della Giustizia Roberto
Castelli. Al Presidente della Repubblica Italiana
onorevole Giorgio Napolitano.
Signor Presidente,
mi permetto di rivolgermi a Lei con questa
lettera aperta per chiederLe di vagliare la
possibilità di concedere la grazia al cittadino
italiano Renato Vallanzasca, nato a Milano il
4/5/1950, attualmente detenuto nel carcere di
Opera. Il Vallanzasca è stato condannato a due
ergastoli e ad altri 90 anni di reclusione per una
serie di furti, di rapine, di sequestri di persona e
anche di omicidi di agenti di polizia consumati
però sempre a viso aperto in scontri a fuoco,
potendo egli stesso essere ucciso, e non in vili
agguati sotto casa mandando magari altri a fare il
lavoro sporco e pericoloso. Il Vallanzasca non
solo ha sempre lealmente ammesso le proprie
colpe, ma si è anche addossato in più occasioni
(rapine di Milano 2, di Pantigliate, di Seggiano,
di viale Corsica) le responsabilità di delitti per i
quali erano stati incriminati degli innocenti,
dando così un suo contributo, non marginale, alla
giustizia. Del pari non ha mai ceduto al
malvezzo, oggi così diffuso anche fra autorevoli
e autorevolissimi rappresentanti delle istituzioni,
di accusare polizia e Magistratura di
"complotto", non si è messo, com'è diventata
anch'essa deplorevole abitudine, a cercare prove
contro i suoi giudici, non ha mai lamentato
torture psicologiche e fisiche per il solo fatto di
essere in carcere, né si è messo a fare il pianto
greco alla scoperta che una cella non è un salotto.
Si è insomma sempre comportato con dignità,
dando a vedere di essere consapevole che aveva
un conto da pagare alla giustizia e alla
collettività. Eppure la carcerazione di Renato
Vallanzasca è stata durissima. Ha passato undici
anni in isolamento. Undici anni, signor
Presidente, quando ai detenuti di Tangentopoli o
similari sono bastati quattro o cinque giorni di
questo regime per gridare all'infamia, invocare
Amnesty International e per ricattare la
collettività minacciando di togliersi la vita. A
differenza di altri detenuti che hanno potuto fare
della loro cella una redazione di giornale o un set
televisivo, a Vallanzasca è stato negato anche il
computer (concesso, mi pare, solo un anno fa) e
poiché non ha santi in paradiso ha subito più
volte botte e pestaggi, mentre i medici che lo
avevano in cura venivano intimiditi perché nulla
trapelasse. Solo una volta, dopo vent'anni di
carcere di questo tipo, all'indomani di un
pestaggio particolarmente brutale, il Vallanzasca,
poiché nessuno si levava a difendere i suoi diritti,
ha scritto una lettera di protesta. Ma nemmeno in
questa occasione si è atteggiato a vittima e a un
giornalista che gli chiedeva se fosse stato
torturato ha risposto: «Beh, adesso non
esageriamo». Risposta che fa il paio con quella
data, dal famoso balconcino, il giorno della sua
prima cattura, alla canea sociologicizzante dei
giornalisti che, in clima immediatamente post
Sessantotto di giustificazionismi universali, gli
chiedevano se non si ritenesse una vittima della
società: «Non diciamo cazzate» (e già solo per
questo, ai miei occhi, meriterebbe di essere
liberato). Una lezione per allora, ma anche per
oggi in un'epoca di perdonismi, di "buonismo",
di indulti, di amnistie mascherate, di prescrizioni
altrettanto mascherate, dove nessuno accetta di
assumersi le proprie responsabilità - che sono
sempre altrove, nella famiglia, nella società, nel
"così fan tutti", nel «perché proprio io?» - come
dimostra anche la penosa vicenda di
Tangentopoli i cui protagonisti hanno fatto di
tutto per mischiare le carte trasformandosi in
martiri della libertà, in giudici dei loro giudici e
ad alcuni dei quali, condannati in via definitiva
per aver taglieggiato e concusso, vengono ora
intitolate vie, piazze e giardini; e quell'altra
incresciosa storia, possibile solo in Italia, di un
detenuto, condannato per l'assassinio di un
commissario di polizia, che ci fa ogni giorno la
morale dalle pagine dei più importanti giornali
nazionali. Come Le dicevo, signor Presidente, il
Vallanzasca ha una sua etica, sia pur malavitosa.
La ragazza Trapani la trattò con garbo e quando
le gazzette cominciarono a insinuare che fra lui e
la giovane c'era una "love story" replicò
seccamente: «Sono tutte balle inventate dai
giornalisti». Laddove, come Lei, signor
Presidente, che è uomo di mondo, ben sa, nella
società delle cosiddette persone perbene a
domande del genere s'è soliti rispondere con
sorrisetti d'intesa e frasi ambigue del tipo: «Non
fatemi parlare, sono un gentiluomo». Inoltre, pur
essendo nella posizione migliore per farlo, il
Vallanzasca si è sempre rifiutato di entrare nel
mercato della droga e a questo proposito ha
dichiarato: «Non giudico né chi si fa né chi
spaccia. Non sono cose che mi riguardano. Ma
con la droga non voglio avere nulla a che fare».
Infine, ed è la circostanza più importante, a
differenza di altri detenuti, per la concessione
della cui grazia, peraltro non richiesta
dall'interessato, si levano infinite voci ben più
autorevoli della mia, e che hanno scontato una
parte minima della loro pena, Renato Vallanzasca
è in galera da più di trent'anni. Ha peccato molto,
è vero, ma mi pare di poter dire che ha espiato
anche molto, dimostrando oltretutto, a differenza
di altri, di riconoscere la potestà dello Stato e il
suo diritto a giudicarlo e punirlo. È un bandito
d'altri tempi, di stampo ottocentesco, quando la
malavita aveva regole, dignità e codici d'onore ed
era lo specchio rovesciato e malato di una società
liberale dove regole e dignità e onore avevano il
primo posto. La malavita di oggi invece, si tratti
di mafiosi, di camorristi, di criminalità
organizzata, ma anche di raider della finanza, di
tangentisti, di concussori, di corruttori (magari
anche di testimoni in giudizio), di "colletti
bianchi" corrotti, di "ladri in guanti gialli", non
ha né regole né dignità né onore. E una malavita
senza dignità né onore non può che essere lo
specchio e il prodotto di una società senza
dignità e senza onore. Tanto è vero che il confine
fra malavita e ciò che non lo è si è venuto
facendo in questi anni sempre più indefinibile e
molti di coloro che oggi sono sotto processo
hanno un piede in Tribunale e l'altro
nell'imprenditoria, nel mondo finanziario, nella
politica, in Parlamento, se non addirittura nel
governo e nei suoi vertici. E non c'è criminale
più spregevole di quello che delinque sotto il
manto della rispettabilità e proteggendosi con
essa. Non c'è immoralità più grande di quella di
chi pretende rispettabilità sapendo di non
meritarla. Renato Vallanzasca, al contrario, è
sempre stato un delinquente a viso aperto. Oso
dire, signor Presidente, che in questo
immondezzaio che è diventata la vita pubblica e
privata del nostro Paese, fa la parte dell'uomo
morale, sia pur a modo suo. È un bandito onesto
in una società dove troppo spesso gli onesti sono
dei banditi.
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